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allo yacht sul motoscafo era come pilotare una capsula minuscola verso il molo della più gigantesca nave star destroyer dell’universo. Non attraccarono neanche. Il motoscafo si avvicinò alla parte posteriore dello yacht, e un altro uomo la aiutò a salire la scala a cinque pioli fin sulla porta. Quell’uomo era Ismail, il famoso assistente.

      “Hai l’agente?” le chiese quando fu salita a bordo.

      Lei fece un sorrisetto. “Ciao, Aabha, come stai?” disse. “È un piacere vederti. Sono contento che tu ne sia uscita indenne.”

      Lui mosse la mano come per mimare una ruota che gira. Dai, dai. “Ciao, Aabha. Etc. etc. Hai l’agente?”

      Lei prese dalla borsa la fiala piena del virus Ebola. Per un secondo ebbe una voglia improvvisa di gettarla nell’oceano. La esibì invece perché lui la ispezionasse. Lui la fissò.

      “In quel piccolissimo contenitore,” disse. “Incredibile.”

      “Ho dato cinque anni della mia vita per questo contenitore,” disse Aabha.

      Ismail sorrise. “Sì, ma tra cent’anni la gente canterà canzoni sull’eroica ragazza di nome Aabha.”

      Allungò una mano come se Aabha fosse sul punto di mettergli nel palmo la fiala.

      “La do a lui,” disse.

      Ismail si strinse nelle spalle. “Come desideri.”

      Salì una rampa di scale illuminate di verde ed entrò nella cabina principale attraverso una porta in vetro. Nella gigantesca cabina contro una parete c’era un lungo bar, molti tavoli lungo i muri e una pista da ballo nel centro. Il suo capo usava la stanza per il divertimento. Aabha c’era stata quando era come un club di Berlino – solo posti in piedi, musica a volume così alto che i muri sembravano pulsare a ritmo, luci stroboscopiche, corpi schiacciati uno contro l’altro sulla pista. Adesso la stanza era silenziosa e vuota.

      Si spostò su un corridoio con un tappeto rosso con mezza dozzina di scompartimenti privati su ogni lato, e poi percorse un’altra rampa di scale. Sulla cima c’era un altro corridoio. Si trovava nelle profondità della barca adesso, e stava andando ancor più in profondità. La maggior parte degli ospiti non era mai arrivata fin lì. Raggiunse la fine del corridoio e bussò alla grande porta doppia che vi trovò.

      “Avanti,” disse una voce maschile.

      Aprì la porta sinistra ed entrò. La stanza non aveva mai smesso di meravigliarla. Era la camera padronale, ubicata direttamente al di sotto della casa pilota. Dall’altra parte della stanza rispetto a dove si trovava lei c’era una finestra curva che andava dal pavimento al soffitto a 180 gradi, e che dava sul punto a cui si stava avvicinando la barca, così come su ciò che si trovava alla sua destra e alla sua sinistra. Spesso erano panorami del mare aperto.

      Sul lato sinistro della stanza c’era un salottino con un grande sofà a sezioni a formare una zona festa. C’erano anche due poltrone, una tavola da pranzo per quattro e un enorme pannello televisivo piatto appeso al muro, con una lunga soundbar montata appena sotto. Un alto mobiletto in vetro pieno di liquori era vicino al muro, nell’angolo.

      Alla sua destra c’era il letto enorme personalizzato, completo di specchio montato sul soffitto che lo sovrastava. Al proprietario della barca piaceva divertirsi, e il letto poteva contenere facilmente quattro persone, a volte cinque.

      In piedi davanti al letto c’era il proprietario stesso. Indossava un paio di pantaloni bianchi in seta chiusi da un cordoncino, un paio di sandali ai piedi, e nient’altro. Era alto e moro. Forse aveva quarant’anni, con capelli sale e pepe e una barba corta che stava appena cominciando a farsi bianca. Era molto bello, con occhi marrone scuro.

      Il suo corpo era slanciato, muscoloso, e perfettamente proporzionato in un triangolo capovolto – ampie spalle e un torace affusolato con gli addominali a tartaruga e la vita sottile, con gambe muscolose al di sotto. Sul pettorale sinistro c’era il tatuaggio di un cavallo nero gigante, un destriero arabo. L’uomo aveva una serie di destrieri, e li prendeva come suo simbolo personale. Erano forti, virili, regali – come lui.

      Appariva in forma, in salute e ristorato, proprio come gli uomini ampliamente benestanti con facile accesso a personal trainer competenti, ai cibi migliori e a medici pronti a somministrare i precisi trattamenti ormonali per combattere il processo di invecchiamento. In una parola, era bellissimo.

      “Aabha, mia adorabile, adorabile ragazza. Chi sarai dopo stasera?”

      “Omar,” disse. “Ti ho preso un regalo.”

      Sorrise. “Non ho mai dubitato di te. Nemmeno per un momento.”

      Le fece cenno di avvicinarsi, e lei andò da lui. Gli porse la fiala, ma lui la mise sul tavolino accanto al letto quasi senza neanche guardarla.

      “Dopo,” disse. “Possiamo pensarci dopo.”

      La tirò a sé. Lei entrò nel suo forte abbraccio. Gli schiacciò il viso sul collo e sentì il suo profumo, il discreto odore della sua colonia sopra e il più profondo e più semplice odore di lui. Non era un patito della pulizia, quell’uomo. Voleva che sentissi il suo odore. Lei lo trovava eccitante, il suo odore. Di lui trovava tutto eccitante.

      Lui la girò e la spinse a faccia in giù sul letto. Lei obbedì volontariamente, con impazienza. Un attimo dopo si contorceva mentre le mani di lui le toglievano i vestiti e vagavano per il suo corpo. La sua voce profonda le mormorava delle cose, parole che normalmente avrebbero potuto scioccarla, ma lì, in quella stanza, la fecero gemere di piacere animale.

*

      Quando Omar si svegliò, era solo.

      Era un bene. La ragazza conosceva le sue preferenze. Mentre dormiva non gli piaceva essere disturbato dai movimenti e dagli irritanti rumori altrui. Il sonno era riposo. Non un incontro di wrestling.

      La barca si muoveva. Avevano lasciato Galveston, proprio come da programma, ed erano diretti verso la Florida passando per il golfo del Messico. A un certo punto, l’indomani, avrebbero attraccato vicino a Tampa, e la fialetta che gli aveva portato Aabha sarebbe sbarcata a terra.

      Andò al tavolino e sollevò la fiala. Era solo una fialetta, fatta di spessa plastica indurita e bloccata in cima da un tappo rosso brillante. Il contenuto era anonimo. Sembrava poco più di una pila di polvere.

      Eppure…

      Toglieva il fiato! Possedere quel potere, il potere di vita e di morte. E non semplicemente il potere di vita e di morte su un’unica persona – il potere di uccidere molte, molte persone. Il potere di distruggere un intero popolo. Il potere di tenere nazioni in ostaggio. Il potere di guerra totale. Il potere della vendetta.

      Chiuse gli occhi e respirò profondamente col diaframma, cercando la calma. Per lui era stato un rischio venire a Galveston di persona, nonché un atto non necessario. Ma aveva voluto esserci nel momento in cui un’arma del genere fosse passata nel novero dei suoi averi. Voleva toccare l’arma, e sentirne il potere nella mano.

      Posò di nuovo la fiala sul tavolino, si mise i pantaloni e rotolò fuori dal letto. Indossò una maglietta del Manchester United e uscì sul ponte. La trovò lì, seduta comoda su una sedia a sdraio a fissare la notte, le stelle e la vasta acqua scura che li circondava.

      Una guardia del corpo se ne stava zitta e tranquilla vicino alla porta.

      Omar fece un cenno all’uomo, e questi si avvicinò alla ringhiera.

      “Aabha,” disse Omar. Lei si voltò, e lui si accorse di quanto fosse assonnata.

      Sorrise, e lui le sorrise a sua volta. “Hai fatto una cosa meravigliosa,” le disse. “Sono molto orgoglioso di te. Forse è ora che tu dorma.”

      Annuì. “Sono stanchissima.”

      Omar si curvò e le loro labbra si incontrarono. La baciò profondamente, assaporando il suo sapore e il ricordo delle curve del suo corpo, dei suoi movimenti, e dei suoi gemiti.

      “Per te, tesoro mio, il riposo è decisamente meritato.”

      Omar lanciò un’occhiata alla guardia. Era un uomo alto e forte. Lui prese una borsa di plastica dalla tasca della giacca,

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