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era provvista di un microfono che trasportava la sua voce all’addetto alla sicurezza che la osservava dal televisore a circuito chiuso. “Sono un animale notturno.”

      “Lo so. Ti ho vista spesso qui in giro a ore molto più tarde di questa.”

      Lei si immaginò l’uomo che la stava osservando. Si chiamava Tom. Era sovrappeso, di mezz’età, divorziato, credeva lei. Solo loro due, soli dentro a quel grande edificio vuoto di notte, e lui aveva molto poco da fare oltre che guardarla. Le dava i brividi pensarci su troppo.

      Aveva appena preso la fiala dal freezer. Muovendosi con cautela si avvicinò alla cappa di sicurezza biologica, dove in circostanze normali avrebbe aperto la fiala per studiarne il contenuto.

      Quella sera le circostanze non erano normali. Quella sera era il culmine di anni di preparazione. Quella sera era quella che gli americani chiamavano Caccia Grossa.

      I suoi colleghi del laboratorio, incluso Tom il guardiano, pensavano che la giovane e bellissima donna si chiamasse Aabha Rushdie.

      Non era così.

      Pensavano che fosse nata in una famiglia benestante nella grande città di Delhi, nell’India del nord, e che la sua famiglia si fosse trasferita a Londra quando era una ragazzina. Era ridicolo. Non le era mai accaduto nulla del genere.

      Pensavano che avesse preso il Ph.D. in microbiologia e che si fosse addestrata esaurientemente per i BSL-4 al King’s College di Londra. Non era vero neanche questo, ma avrebbe anche potuto esserlo. Ne sapeva abbastanza su come maneggiare batteri e virus quanto un qualsiasi candidato per il Ph.D. – se non di più.

      La fiala che teneva in mano conteneva un campione liofilizzato del virus Ebola, che negli ultimi anni aveva portato tanto scompiglio in Africa. Se si fosse trattato semplicemente di un virus Ebola preso da una scimmia, da un pipistrello, o persino da una vittima umana… già così sarebbe stato molto, molto pericoloso da maneggiare. Ma c’era tanto altro da aggiungere a quella storia.

      Aabha guardò l’orologio digitale sul muro. Le 20:54. Mancava un minuto. Le serviva solo un altro po’ di tempo.

      “Tom?” disse.

      “Sì?” disse la voce.

      “Hai visto la presidente in tv ieri sera?”

      “Sì.”

      Aabha sorrise. “Che ne pensi?”

      “Che ne penso? Be’, penso che abbiamo dei problemi.”

      “Davvero? A me lei piace moltissimo. Penso che sia una grande donna. Al mio Paese…”

      Nel laboratorio si spensero le luci. Accadde senza alcun preavviso – nessuno sfarfallio, nessun bip, niente di niente. Per parecchi secondi Aabha rimase in piedi nel buio assoluto. Il rumore dei forni a convenzione e delle apparecchiature elettriche, che era un costante ronzio di sottofondo nel laboratorio, rallentò fino a spegnersi. Poi ci fu il silenzio totale.

      Aabha mise nella voce quella che sperava essere una giusta nota di allarme.

      “Tom? Tom!”

      “Va bene, Aabha, va tutto bene. Sto cercando di prendere… Che succede qui? Le telecamere sono spente.”

      “Non lo so. Sto…”

      Si accese una serie di luci gialle d’emergenza, e le ventole dei forni ripresero a girare. La luce bassa trasformò il laboratorio in un mondo inquietante e ombroso. Era tutto offuscato, eccetto che per le luci rosso brillante che dicevano USCITA luccicando nella semioscurità.

      “Wow,” disse lei. “È stato spaventoso. Per un minuto il tubo dell’aria ha smesso di funzionare. Ma adesso si è riacceso.”

      “Non so cosa sia successo,” disse Tom. “Stiamo usando l’energia di riserva su tutto l’edificio. Abbiamo dei generatori di scorta pieni che sarebbero dovuti entrare in funzione, ma non l’hanno fatto. Penso che una cosa del genere non sia mai accaduta prima. E sono ancora senza telecamere. Tu stai bene? Riesci a uscire?”

      “Io sto bene,” disse. “Un po’ spaventata, ma bene. Le luci dell’uscita sono accese. Posso seguire quelle?”

      “Sì. Ma devi seguire tutti i protocolli di sicurezza, anche al buio. La doccia chimica per la tuta, la doccia normale per te – tutto quanto. Oppure, se senti di non riuscire a seguire il protocollo, dobbiamo aspettare finché non riesco a mandarti giù qualcuno, o finché non torna la corrente.”

      La voce di lei tremò appena appena. “Tom, mi si è spenta l’aria. Se si spegne ancora… Diciamo solo che non voglio trovarmi qui senza il tubo dell’aria. Potrei seguire il protocollo a occhi chiusi. Ma devo proprio uscire.”

      “Okay. Tutte le procedure alla lettera, però. Mi fido di te. Ma non ho luce. Sembra che sia tutto al buio, fino all’uscita. La camera di equilibrio è rimasta fuori uso per un minuto, ma si è appena riattivata. Probabilmente la cosa migliore è che ti facciamo uscire per di là. Una volta attraversata la camera non dovresti avere problemi. Fammi sapere quando l’hai superata, okay? Voglio richiuderla per risparmiare energia.”

      “Okay,” disse lei.

      Si spostò lentamente nell’oscurità verso la porta d’uscita che portava alla camera di equilibrio, con la fiala del virus ancora nel palmo della mano destra guantata. Ci sarebbero voluti venti o trenta minuti per seguire tutte le procedure per l’uscita. Non sarebbe andata così. Aveva pianificato di fare il minimo indispensabile da lì in avanti. Sarebbe stata l’uscita dal laboratorio più veloce che avessero mai visto.

      Tom le stava ancora parlando. “Per favore, assicurati anche di mettere in sicurezza tutti i materiali e tutta l’attrezzatura prima di uscire. Non vogliamo che qualcosa di pericoloso se ne vada a spasso.”

      Aprì la prima porta e ci passò attraverso. Appena prima che si chiudesse, udì la sua voce per l’ultima volta.

      “Aabha?” le disse.

*

      Aabha guidava la BMW Z4 convertibile con il tettuccio tirato giù.

      Era una serata calda, e voleva sentire il vento tra i capelli. Era la sua ultima notte a Galveston. Era la sua ultima notte come Aabha. Aveva portato a termine la missione affidatale, e dopo cinque lunghi anni di lavoro sotto copertura, quella parte della sua vita era finita.

      Era una sensazione fantastica – levarsi di dosso un’identità come fosse stata un vestito. Era libertà, era euforia. Sentiva di poter essere la protagonista di una pubblicità televisiva.

      Si era stancata della seria e studiosa Aabha molto tempo fa. Chi sarebbe diventata adesso? Era una domanda deliziosa.

      Il viaggio fino al porto fu breve – erano poche miglia appena. Uscì dalla strada principale per scendere lungo la rampa di un parcheggio. Prese lo zaino per la notte e la borsa dal bagagliaio e lasciò le chiavi nel vano portaoggetti. Tra un’ora una donna che non aveva mai visto, ma che aveva lineamenti simili ad Aabha, sarebbe salita in macchina e se ne sarebbe andata. La macchina si sarebbe trovata a duecento miglia di distanza entro la mattina dopo.

      La cosa la rendeva un pochino triste, perché quella macchina l’adorava.

      Ma che cos’era una macchina? Niente di più di molte parti individuali, saldate e avvitate e assicurate insieme. Un’astrazione, in realtà.

      Camminò sui tacchi alti per il porto. Le scarpe risuonavano sul terreno piastrellato. Superò la piscina, chiusa a quell’ora della sera, ma illuminata dall’alto da una spettrale luce azzurra. I tetti di paglia dei ripari dal sole per picnic frusciavano nella brezza. Scese la rampa fino al primo molo.

      Da lì riusciva a vedere la grande barca brillare nella sera sull’acqua, ben al di là del più lontano raggio del dedalo di moli interconnessi. La barca, uno yacht transatlantico di settantasei metri, era decisamente troppo grande per avvicinarsi la porto. Era un hotel galleggiante, completo di discoteca, piscina con idromassaggio, palestra e del suo elicottero da quattro persone con pista d’atterraggio. Era un castello mobile, perfetto per un re moderno.

      Lì al molo l’aspettava un piccolo motoscafo. Un uomo le offrì la mano per aiutarla a salire sulla

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