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lì appena possiamo.”

      “Luke?”

      “Sì.”

      “La storia è su tutti i notiziari. Ci sono tre collegamenti in diretta sul megaschermo qui, adesso. Spingono tutti su questo.”

      Annuì. “Me lo immaginavo.”

      Lei continuò. “Il sindaco ha programmato un discorso per le 6 del mattino. Sembra che dirà a tutti di restare a casa oggi.”

      “A tutti?”

      “Vuole che il personale non necessario se ne stia fuori da Manhattan. Tutti i funzionari. Tutti gli addetti alle pulizie e i commessi. Tutti gli studenti e gli insegnanti. Chiederà a cinque milioni di persone di prendersi una giornata di vacanza.”

      Luke si portò la mano alla bocca. Respirò. “Dovrebbe fare molto per il morale,” disse. “Se tutti a New York restano a casa, i terroristi potrebbero colpire Philadelphia.”

      Capitolo 8

      5:45 a.m.

      Baltimora, Maryland – A sud del tunnel Fort McHenry

      Eldrick era solo, a una decina di metri dal furgone. Aveva appena vomitato un’altra volta. Erano più che altro conati e sangue ormai. Era il sangue a disturbarlo. Era ancora stordito, ancora febbricitante e arrossato, ma più niente nello stomaco, la nausea se n’era quasi andata. Ma soprattutto, era finalmente fuori dal furgone.

      Da qualche parte oltre l’orizzonte sporco, il cielo stava appena cominciando a illuminarsi di un pallido e malato giallo. Quaggiù sulla terra, era ancora buio. Erano appostati in un parcheggio desolato lungo una squallida costiera. Un cavalcavia passava venti piani sopra le loro teste. Lì vicino c’era un edificio industriale abbandonato in mattoni con due ciminiere gemelle. Le finestre erano rotte in buchi neri come gli occhi di un morto. L’edificio era circondato da un recinto di filo spinato con cartelli ogni nove metri: ALLA LARGA. C’era un buco visibile nel recinto. L’area attorno all’edificio era infestata da cespugli ed erba alta.

      Guardò Ezatullah e Momo. Ezatullah rimosse una delle grandi e magnetiche decalcomanie che dicevano Lavanderia Dun-Rite, andò sul margine dell’acqua e la lanciò dall’altra parte. Poi tornò indietro e rimosse quella dall’altro lato. Eldrick non era mai riuscito a levarle. Nel frattempo, Momo si inginocchiò di fronte al furgone con un cacciavite, rimosse la targa e la rimpiazzò con un’altra. Un momento dopo era sul retro, e faceva lo stesso con la targa posteriore.

      Ezatullah fece un gesto verso il furgone. “Voilà!” disse. “Un veicolo nuovo. Prendimi adesso, Zio Sam.” Il viso di Ezatullah luccicava di rosso e di sudore. Sembrava ansimare. Gli occhi erano iniettati di sangue.

      Eldrick guardò i dintorni. Lo stato fisico di Ezatullah gli aveva dato un’idea. L’idea gli brillò nella testa come un flash, apparsa e sparita in un attimo. Era il modo migliore di pensare. Le persone potevano leggerti i pensieri negli occhi.

      “Dove siamo?” chiese.

      “Baltimora,” rispose Ezatullah. “Un’altra delle tue fantastiche città americane. E un luogo bellissimo dove vivere, immagino. Bassa criminalità, le bellezze della natura, e i cittadini sono sani e benestanti, l’invidia della gente di ogni dove.”

      Nella notte, Eldrick aveva avuto il delirio. Era svenuto più di una volta. Aveva perso il senso del tempo, e non sapeva dove fosse. Ma non aveva idea che fossero arrivati così lontano.

      “Baltimora? Perché siamo qui?”

      Ezatullah scrollò le spalle. “Stiamo andando verso la nostra nuova destinazione.”

      “L’obiettivo è qui?”

      Ora Ezatullah sorrise. Il sorriso sembrava fuori posto in quella faccia avvelenata dalle radiazioni. Sembrava la morte stessa. Allungò una mano tremante e diede a Eldrick un’amichevole pacca sulla spalla.

      “Mi spiace di essermi arrabbiato con te, fratello. Hai fatto un buon lavoro. Hai portato a termine tutto ciò che avevi promesso di fare. Con il volere di Allah, spero che raggiungerai il paradiso oggi stesso. Ma non per mano mia.”

      Eldrick si limitava a fissarlo.

      Ezatullah scosse la testa. “No. Non Baltimora. Stiamo viaggiando verso sud per lasciare un segno che darà gioia alle masse sofferenti di tutto il mondo. Entreremo nel covo del Diavolo stesso e taglieremo la testa della bestia con le nostre mani.”

      Eldrick sentì freddo nella parte superiore del corpo. Gli venne la pelle d’oca sulle braccia. Si accorse di avere la camicia fradicia di sudore. Non gli piaceva quello che aveva sentito. Se erano diretti a sud e si trovavano a Baltimora, allora la prossima città era …

      “Washington,” disse.

      “Sì.”

      Ezatullah sorrise ancora. Ora il sorriso era glorioso, quello di un santo davanti alle porte del paradiso, pronto ad accettare il permesso di entrare.

      “Taglia la testa e il corpo morirà.”

      Eldrick riusciva a vederlo negli occhi di Ezatullah. Aveva perso la testa. Forse era la malattia, o forse qualcos’altro, ma era ovvio che non ragionava con chiarezza. Fino a quel momento, il piano era stato di rubare il materiale e abbandonare il furgone nel South Bronx. Era un lavoro pericoloso, molto difficile da portare a termine, e loro ce l’avevano fatta. Ma chiunque fosse il capo questi aveva cambiato il piano, o aveva mentito fin dall’inizio. Adesso viaggiavano verso Washington in un furgone radioattivo.

      Per fare cosa?

      Ezatullah era uno jihadista esperto. Doveva sapere che quello che stava suggerendo era impossibile. Qualsiasi cosa pensasse che avrebbero fatto, Eldrick sapeva che non ci sarebbero arrivati neanche lontanamente vicini. Immaginò il furgone, trivellato di buchi di proiettile, a trecento metri dalla Casa Bianca o dal Pentagono o dal recinto del Campidoglio.

      Questa non era una missione suicida. Non era una missione per niente. Era una dichiarazione politica.

      “Non ti preoccupare,” disse Ezatullah. “Sii felice. Sei stato scelto per l’onore più grande che ci sia. Ce la faremo, anche se tu non puoi immaginarti come. Il metodo ti diverrà chiaro a suo tempo.” Si voltò e aprì la portiera del furgone.

      Eldrick guardò Momo. Stava montando la targa posteriore. Momo non parlava da un po’. Probabilmente neanche lui si sentiva tanto bene.

      Eldrick fece un passo indietro. Poi un altro. Ezatullah era impegnato con qualcosa dentro al furgone. Gli dava le spalle. La parte migliore di quel momento era che un altro sarebbe potuto non capitare più. Eldrick se ne stava lì in piedi nello spazio aperto, e nessuno lo guardava.

      Eldrick era stato un corridore a scuola. Era bravo. Ricordava le folle nella 168ma Strada Armory a Manhattan, le posizioni sul tabellone, la campanella che scattava. Ricordava quel senso di nodo allo stomaco appena prima di una gara, e la velocità folle sulla nuova pista, le magre gazzelle nere da competizione che si spintonavano, i gomiti in alto, che correvano così veloci che sembrava di stare in un sogno.

      Per tutti gli anni trascorsi da allora, Eldrick non aveva mai corso come aveva fatto all’epoca. Ma forse, con una scarica di energia concentrata, avrebbe potuto raggiungere quella velocità adesso. Non aveva senso esitare, né starci a pensare troppo.

      Si voltò e partì.

      Un secondo dopo, la voce di Momo dietro di lui:

      “EZA!”

      Poi qualcosa in farsi.

      L’edificio abbandonato era davanti. La malattia tornò a farsi sentire. Vomitò, il sangue che gli schizzava la camicia, ma continuò a correre. Era già senza fiato.

      Sentì uno schiocco come di una spillatrice. Fece una debole eco contro i muri dell’edificio. Ezatullah sparava, ovvio che sparava. La sua pistola aveva un silenziatore.

      Una puntura

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