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figura ora si muoveva rapidamente, come un serpente nella notte, avvicinandosi sempre di più, e mentre MacGil si sedeva, riuscì a dare un’occhiata al suo volto. La stanza stava ancora ruotando e l’oscurità gli impediva di capire chiaramente, ma per un momento avrebbe potuto giurare che sotto quel cappuccio ci fosse il volto di suo figlio.

      Gareth?

      Il cuore di MacGil venne sommerso da un’improvvisa ondata di panico mentre si chiedeva cosa diavolo ci facesse lì, senza essersi fatto annunciare, così tardi nella notte.

      “Figlio?” chiamò.

      MacGil vide l’intento di morte nei suoi occhi e questo gli bastò: si preparò a balzare dal letto.

      Ma l’altro si muoveva troppo velocemente. Scattò in azione, e prima che MacGil potesse alzare una mano per difendersi, alla luce della torcia baluginò un riflesso metallico e subito, troppo in fretta, una lama fendette l’aria e gli affondò nel cuore.

      MacGil gridò, un profondo e lugubre grido d’angoscia, e il suono della sua voce sorprese lui stesso. Era un grido di battaglia, del genere che aveva udito troppe volte. Era il grido di un guerriero ferito a morte.

      MacGil sentì il metallo freddo che gli si infilava tra le costole, trapassandogli il muscolo e mescolandosi con il suo sangue. La lama veniva spinta a fondo, sempre più a fondo. Era il dolore più intenso che avesse mai immaginato: sembrava penetrargli nel corpo all’infinito. Sussultò con forza e sentì il sangue caldo e salato che gli riempiva la bocca, sentì l’intensità del proprio respiro che accelerava. Si sforzò di sollevare lo sguardo davanti a quel volto che si nascondeva sotto il cappuccio. Si sorprese: si era sbagliato. Non era il viso di suo figlio. Era qualcun altro. Qualcuno che riconobbe. Non riuscì a ricordare chi fosse, ma era qualcuno della sua cerchia. Qualcuno che assomigliava a suo figlio.

      La sua mente brancolò nella confusione mentre tentava di dare un nome a quella faccia.

      Mentre quella figura stava in piedi sopra di lui, tenendo saldo il pugnale, MacGil in qualche modo riuscì a sollevare una mano e premerla sulla spalla dell’uomo, nel tentativo di fermarlo. Sentì esplodere in sé la forza del vecchio guerriero, la forza dei suoi antenati. Percepì quella parte di sé per cui era Re e per cui non si sarebbe arreso. Con una spinta fortissima riuscì a spingere indietro il suo assassino.

      L’uomo era magro, più fragile di quanto MacGil pensasse, e incespicò indietro con un grido, attraversando la stanza. MacGil riuscì ad alzarsi e, con sforzo estremo, si estrasse il coltello dal petto. Lo gettò attraverso la stanza mandandolo a colpire il pavimento di pietra con un clangore metallico: l’arma scivolò sul pavimento fino ad andare a sbattere contro la parete lontana.

      L’uomo, il cui cappuccio era ricaduto sulle spalle, balzò in piedi e lo fissò con gli occhi sgranati per la paura mentre MacGil avanzava verso di lui. L’uomo si voltò e iniziò a correre, fermandosi solo per recuperare il coltello prima di darsela a gambe.

      MacGil tentò di inseguirlo, ma l’uomo era troppo veloce e improvvisamente il dolore crebbe, trafiggendogli il petto. Si sentì debole.

      Rimase lì in piedi, solo nella stanza, e guardò in basso il sangue che gli usciva dal petto bagnadogli il palmo della mano. Crollò in ginocchio.

      Sentiva freddo, si chinò in avanti e cercò di chiamare aiuto.

      “Guardie,” disse debolmente.

      Fece un respiro profondo e con suprema agonia riuscì a raccogliere la sua voce più profonda. La voce del Re di un tempo.

      “GUARDIE!” gridò.

      Udì dei passi che provenivano da qualche lontano corridoio e che lentamente si avvicinavano. Sentì una porta che si apriva in lontananza, percepì dei corpi che gli si avvicinavano. Ma la stanza iniziò di nuovo a ruotare, e questa volta non certo per il bere.

      L’ultima cosa che vide fu il freddo pavimento di pietra che saliva verso di lui per schiantarsi contro il suo volto.

      CAPITOLO DUE

      Thor afferrò la maniglia di ferro dell’enorme porta in legno che gli stava davanti e tirò con tutte le sue forze. Questa si aprì lentamente, scricchiolando e svelandogli la camera del Re. Fece un passo avanti, sentendo i peli rizzarsi sulle braccia mentre attraversava la soglia. Percepiva una densa oscurità in quel luogo, sospesa nell’aria come una sorta di nebbia.

      Thor avanzò di parecchi passi nella stanza, udendo il crepitio delle torce appese ai muri mentre si dirigeva verso un corpo che si trovava a terra, accasciato. Aveva già il presentimento che si trattasse del Re, che fosse stato assassinato e che lui, Thor, fosse quindi arrivato troppo tardi. Non poteva fare a meno di chiedersi dove fossero tutte le guardie, perché nessuno fosse lì per salvare il sovrano.

      Le ginocchia gli si fecero più molli mentre compiva gli ultimi passi verso il corpo. Si inginocchiò sulla pietra, afferrò la spalla già fredda e girò il corpo.

      Lì giaceva MacGil, il suo Re, steso con gli occhi aperti, morto.

      Thor sollevò lo sguardo e improvvisamente vide un servitore del Re stargli vicino. Reggeva in mano un grande calice ricoperto di pietre preziose, lo stesso che – Thor lo riconobbe – aveva visto alla festa, fatto di oro massiccio e tempestato da file di rubini e zaffiri. Mentre guardava Thor, il servitore ne versò lentamente il contenuto sul petto del Re. Il vino rimbalzò e schizzò completamente sul volto di Thor.

      Thor udì uno stridio e voltandosi vide il suo falco, Estofele, appollaiato sulla spalla del Re a leccare il vino dalla sua guancia.

      Sentì poi un rumore e si voltò dall’altra parte: lì di fronte a lui c’era Argon che lo guardava severamente. In una mano teneva la corona, luccicante. Nell’altra il suo bastone.

      Argon avanzò e pose la corona saldamente sulla testa di Thor. Thor ne sentì il peso, la sua circonferenza calzargli perfettamente attorno alla testa, comoda, il metallo che gli cingeva le tempie. Sollevò lo sguardo interrogativo verso Argon.

      “Sei tu il Re adesso,” sentenziò lui.

      Thor sbatté le palpebre, e quando riaprì gli occhi di fronte a lui si trovavano tutti i membri della Legione, dell’Argento, centinai di uomini e ragazzi accalcati nella stanza, tutti con gli occhi puntati su di lui. Tutti insieme si inginocchiarono, si inchinarono di fronte a lui, i volti a pochi centimetri da terra.

      “Nostro Re,” disse un coro di voci.

      Thor si svegliò di soprassalto. Si mise a sedere con il fiato lungo e guardandosi attorno. Era buio là dentro, e umido. Capì che si trovava seduto su un pavimento di pietra con la schiena alla parete. Strizzò gli occhi nell’oscurità, vide delle sbarre di ferro in lontananza e al di là il bagliore di una torcia. Poi ricordò: le segrete. Lo avevano trascinato laggiù dopo a festa.

      Ricordava quella guardia che l’aveva colpito con un pugno in faccia, e comprese che doveva essere rimasto privo di conoscenza per chissà quanto tempo. Rimase seduto, respirando affannosamente e cercando di eliminare quell’orribile sogno. Era sembrato così reale. Pregò perché non fosse vero, che il Re non fosse realmente morto. Quell’immagine del Re morto era stampata nella sua mente. Aveva veramente avuto la visione di qualcosa? O era tutto semplicemente frutto della sua immaginazione?

      Thor sentì un calcio contro la pianta del piede, e alzando lo sguardo vide una figura in piedi accanto a lui.

      “Era ora che ti svegliassi,” disse una voce. “Sono ore che aspetto.”

      Nella luce soffusa Thor scorse il volto di un ragazzo, probabilmente della sua età. Era magro e basso, con guance scavate e la pelle butterata; ciononostante sembrava che qualcosa di gentile e intelligente brillasse nei suoi occhi verdi.

      “Sono Merek,” disse. “Il tuo compagno di cella. Perché ti hanno sbattuto dentro?”

      Thor restava seduto e cercava di mantenere la concentrazione su di lui. Si appoggiò con la schiena alla parete, si passò le mani tra i capelli

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