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sulla sedia a dondolo che stava sotto la finestra, poi indossò il pigiama preferito, quello grigio a rombi azzurri ormai consumato all’altezza dei gomiti e delle ginocchia. Pose le ciabatte ai piedi del letto in modo che fossero perfettamente parallele e si coricò.

      Di nuovo gli occhi rivolti al soffitto e la sigaretta ormai gualcita in bocca, di nuovo sveglio così presto. Ma quella mattina si sentiva peggio della precedente, aveva dormito poco e male e il suo sonno era stato turbato da un brutto incubo: un uomo col camice bianco e gli occhiali gli diceva di non aver paura, che aveva una brutta malattia ma che la poteva vincere. E lui si sentiva impotente, anche se aveva tanta voglia di vivere. Colpa delle zanzare e di questo maledetto caldo minimizzò, ma la solitudine e il silenzio sembravano aver ingigantito quelle brutte sensazioni. Malgrado i suoi tentativi di pensare ad altro, continuava a provare un’angoscia quasi fisica, che lo avvolgeva come le spire di un serpente.

      Almeno, sono riuscito a stare un giorno senza fumare… vedremo quanto durerò. Prese dal comò quell’unico foglio che aveva scritto il giorno prima e lo rilesse, nella speranza che gli venisse una qualche idea per proseguire il racconto. Quell’uomo solo scopre di essere ammalato… si è ammalato perché ha perso il senso delle cose… il senso dell’amore… si, ecco: ha perduto il senso dell’amore e si è lasciato andare si disse pensando al protagonista del suo romanzo. Non ha più voglia di vivere, ma forse, se qualcuno glielo insegnerà potrà guarire. Chissà, magari incontrerà una specie di guida spirituale, un guru o qualcosa del genere. In ogni caso sarà un tipo un po’ strano, un uomo che porta con sé una grande amarezza oppure un grande segreto. Lo chiamerò Walter, mentre il protagonista deve avere un nome comune, normalissimo. Lo chiamerò… accidenti, è difficile persino trovargli i nomi, ai personaggi. Mah, per ora lo chiamerò per cognome, poi si vedrà: lo chiamerò Carpetti, mi sembra un cognome abbastanza anonimo. E il romanzo, o racconto, o quello che ne verrà fuori, lo ambienterò in autunno, sperando che questo mi aiuterà a sentirmi più fresco. Seguendo questo lampo di ispirazione scese al volo dal letto per andare a scrivere, senza neanche pensare alla colazione, ma barcollò e cadde. Si rialzò guardandosi intorno perplesso e constatò stupito che ai suoi piedi non c’era niente, quindi non era caduto per aver inciampato in qualcosa. Si preoccupò solo per un istante, poi non ci pensò più: quel suo nuovo bisogno era più forte di lui, doveva mettersi immediatamente a scrivere altrimenti l’idea sarebbe volata via.

      CAPITOLO II (CARPETTI DAL DOTTORE)

      La radiosveglia si accese alle sei e mezza, giusto in tempo per l’appuntamento con l’oroscopo del nuovo giorno. Mentre lo ascoltava senza crederci più di tanto, Carpetti rifece il letto con cura, in modo che sulla coperta non restasse neanche la più piccola piega. Poi si recò in cucina e aprì due arance, come ogni giorno si preparò una spremuta per prevenire il raffreddore. Tirò fuori dal congelatore il quello che sarebbe diventato il suo pranzo e lo mise nell’acquaio, poi si preparò per uscire. Quella mattina doveva ritirare il risultato delle analisi a cui si era sottoposto qualche giorno addietro per verificare l’origine di alcuni disturbi. Il medico lo aveva tranquillizzato dicendogli che doveva sicuramente trattarsi di una cosa da niente, ma aveva comunque insistito affinché si sottoponesse a un check-up completo. Dato che la mattina non aveva mai troppa voglia di conversare, soprattutto riguardo le banalità tipo il tempo, Carpetti evitò di prendere l’ascensore per non rischiare di incontrare qualcuno. Giunto al portone d’ingresso, trasse un profondo respiro e aprì la porta per tuffarsi nel Mondo. Avviandosi verso la fermata dell’autobus, con le mani in tasca e la testa china, si rese conto che era una di quelle giornate caratteristiche del cambio di stagione tra l’autunno e l’inverno, fresca e luminosa. L’alito formava quelle nuvolette che paiono essere fatte di fumo di sigaretta, l’erba del prato condominiale era coperta di brina e qualche rara folata di vento interrompeva bruscamente il cinguettio degli uccelli. Giunto in Centro scese dall’autobus, guardando l’orologio del campanile si rese conto di essere arrivato troppo presto. Si chiese come avrebbe potuto sfruttare quella mezz’ora ma non gli venne in mente niente, così si strinse nelle spalle e cominciò a curiosare di vetrina in vetrina. Le mamme stavano accompagnando i bambini a scuola, dai panifici usciva un buon aroma che sembrava scaldare l’aria e il camion della nettezza stava rumorosamente svuotando i cassonetti. La città era viva ma lui non se ne accorgeva, riusciva solo a vedere la propria immagine distorta riflessa nelle grandi vetrate. A un certo punto provò un lieve senso d’invidia, o forse di imbarazzo verso sé stesso, nel vedere due ragazzini che entravano a scuola, zaino in spalla e mano nella mano. Ma quella sensazione durò poco, subito dopo si infilò nel portone dello studio medico. La sala d’attesa era ben arredata, con comodi divanetti dai chiari colori sfumati, varie riviste specialistiche erano messe in mostra di proposito su un bel tavolo in ferro battuto col ripiano in vetro molto spesso. Appese alle pareti bianchissime, le copie di alcuni quadri di Picasso facevano compagnia agli attestati di partecipazione a corsi di aggiornamento, inerenti nuove particolari terapie per la cura dell’asma. Completava l’insieme una bella composizione di piante grasse sistemata in un angolo. Carpetti odiava recarsi là, trovava quel posto troppo freddo e silenzioso. Malgrado fosse un maniaco dell’ordine e della pulizia, quell’ambiente così bianco e freddo gli trasmetteva un senso di smarrimento. Si sedette e cominciò a sfogliare una rivista senza leggere perché in realtà stava facendo, come sempre, il gioco dei luoghi comuni. Scommetteva con sé stesso che avrebbe indovinato in anticipo, nella blanda conversazione che stava svolgendosi in sala d’attesa, cosa stava per dire la persona che stava parlando. E’ per questo che il mondo gira storto. La gente ha la testa piena di luoghi comuni, ovunque vai senti gli stessi discorsi…. stava pensando, quando venne il suo turno.

      «Buongiorno dottore» salutò entrando, senza mostrare alcun entusiasmo. Il medico sedeva nell’angolo sinistro in fondo alla stanza lunga e stretta, dietro di lui, a fianco alla tabella per la misurazione della vista, una finestra dava su un viale alberato. Carpetti pensò che, a colpo d’occhio, quell’uomo sembrava un pezzo appartenente a quella collezione di oggetti rigorosamente bianchi e silenziosi. Quasi come se fosse privo di una vita propria e stesse sempre là dentro, seduto dietro a quella scrivania. In quel contesto di oggetti rigorosamente chiari, l’unica cosa che spiccava era un orologio da tavolo a forma di piramide, nero, che pareva dominare l’ambiente per lanciare un monito: “Il tempo è prezioso”.

      «Buongiorno signor Carpetti. Si accomodi» rispose il dottore, stava giocherellando nervosamente con un’elegante penna rifinita in oro.

      «E’ una cosa lunga?» replicò lui, allungando una mano verso una busta con il suo nome scritto sopra.

      «Debbo parlarle» lo informò il medico tirando a sé la busta un attimo prima che lui riuscisse ad afferrarla. Allora lui si lasciò cadere di malavoglia sulla sedia, indispettito perché il dottore gli aveva sottratto la sua busta, e incrociò le braccia al petto a mostrargli tutto il suo disappunto. Di tanto in tanto il vento spingeva i rami ormai quasi del tutto spogli di un’acacia contro il vetro della finestra, producendo un orribile rumore stridente, il cielo si era rabbuiato e pareva indeciso se piovere o no.

      «Avanti, la ascolto» lo esortò Carpetti richiamando il medico, che si era come distratto.

      «Lei ha un problema» esordì questi a bassa voce, senza guardarlo negli occhi.

      «Accidenti… niente di grave spero.»

      «Mi spiace dover essere brusco, ma purtroppo temo di sì.»

      Il disagio di Carpetti si trasformò subito in un’angoscia profonda, adesso le parole del dottore avevano fatto sì che la stizza lasciasse il posto alla paura.

      «Si spieghi meglio, per favore.»

      «Vede, lei deve cominciare ad abituarsi all’idea che non potrà più fare le cose come prima» cominciò a spiegargli l’altro da dietro gli occhiali. Qualche schizzo di pioggia aveva intanto preso a battere sulla finestra per scivolare veloce sul vetro lindo. Il dottore, sempre più imbarazzato, aveva preso a caricare l’orologio da polso, Carpetti sentì il proprio sangue farsi strada a fatica nelle vene, come se fosse diventato improvvisamente densissimo.

      «Non capisco» mormorò, e adesso un artiglio gli torceva lo stomaco. Intanto lottava contro

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