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in discussione la saggezza del re?” chiese la regina.

      Tano non poteva credere che nessuno si opponesse a questo. Non vedevano com’era ingiusto? Non si rendevano conto che quelle nuove leggi avrebbero innescato il fuoco di una ribellione?

      “Non per un solo secondo potrai far credere a questa gente che tu non vuoi altro che la loro sofferenza e desideri approfittarti di loro,” disse Tano.

      Si levò un sussulto di disapprovazione nel mezzo del gruppo.

      “Dici parole dure, nipote,” disse il re guardandolo negli occhi. “Mi verrebbe quasi da credere che tu voglia unirti alla ribellione.”

      “O magari ne è già parte?” disse la regina inarcando le sopracciglia.

      “No,” abbaiò Tano.

      L’aria nel gazebo si fece più calda e Tano si rese conto che se non fosse stato attento, sarebbe potuto essere accusato di tradimento, un crimine punibile con la morte senza processo.

      Stefania si alzò in piedi e gli prese la mano tra le proprie, ma agitato dal suo comportamento lui la strappò via di nuovo.

      Stefania rimase avvilita e abbassò lo sguardo.

      “Forse nel tempo vedrai la debolezza delle tue convinzioni,” gli disse il re. “Per ora, il nostro modo di governo proseguirà e verrà immediatamente implementato.”

      “Bene,” disse la regina con un improvviso sorriso. “Ora spostiamoci alla seconda questione del nostro programma. Tano, in quanto giovane uomo di diciannove anni, i tuoi sovrani hanno scelto una moglie per te. Abbiamo deciso che tu e Stefania vi sposerete.”

      Tano si girò a guardare Stefania, i cui occhi erano luccicanti di lacrime e il cui viso era segnato dalla preoccupazione. Si sentì inorridito. Come potevano chiedergli questo?

      “Non posso sposarla,” sussurrò mentre un nodo gli si formava nella pancia.

      Tra la folla si levarono i mormorii e la regina saltò in piedi così velocemente che la sedia cadde indietro con un tonfo.

      “Tano!” gridò con le mani sui fianchi. “Come osi disobbedire al re! Sposerai Stefania che tu lo voglia o no.”

      Tano guardò Stefania con occhi tristi vedendo le lacrime che le rigavano il volto.

      “Pensi di essere troppo per me?” gli chiese con il labbro inferiore che tremava.

      Lui fece un passo verso di lei per confortarla il poco che poteva, ma prima di averla raggiunta, lei corse fuori dal gazebo coprendosi il volto con le mani e piangendo.

      Il re si alzò in piedi, chiaramente arrabbiato.

      “Ripudiala, figliolo,” disse con voce improvvisamente fredda e dura che risuonò sotto al gazebo, “e per te ci sarà la prigione.”

      CAPITOLO CINQUE

      Ceres corse tra le vie della città fino a sentire che le gambe non avrebbero più retto, fino a che i polmoni le facevano così male da sentirli quasi scoppiare, e fino a che non fu assolutamente certa che il mercante di schiavi non l’avrebbe trovata.

      Alla fine cadde a terra in un vicolo secondario in mezzo alla spazzatura e ai ratti, le braccia strette attorno alle gambe e le lacrime che le scorrevano lungo le guance calde. Con suo padre lontano e la madre che voleva venderla, non aveva più nessuno. Se fosse rimasta in quelle strade e avesse dormito lì sarebbe alla fine morta di fame o congelata non appena l’inverno fosse arrivato. Forse sarebbe stata la conclusione migliore.

      Per ore rimase seduta a piangere, gli occhi gonfi, la mente confusa per la disperazione. Dove sarebbe andata adesso? Come si sarebbe procurata i soldi per sopravvivere?

      Il giorno stava volgendo al termine quando alla fine decise di tornare a casa, sgattaiolare nel capanno, prendere le poche spade che erano rimaste e venderle a palazzo. Ad ogni modo la aspettavano l’indomani. In quel modo avrebbe avuto un po’ di soldi per qualche giorno, almeno fino a che non avesse trovato un piano migliore.

      Avrebbe anche preso la spada che suo padre le aveva dato e che teneva nascosta sotto alle assi del pavimento del capanno. Ma quella non l’avrebbe venduta, no. Fino a che non si fosse trovata faccia a faccia con la morte, mai e poi mai avrebbe ceduto il dono di suo padre.

      Andò verso casa in una piccola corsa e guardandosi attentamente da ogni volto familiare o dal carro del mercante di schiavi. Quando raggiunse l’ultima collina, si mosse di soppiatto dietro alla fila di case e si portò nel campo camminando in punta di piedi sulla terra arsa, cercando attorno avvisaglie della presenza di sua madre.

      Una fitta di senso di colpa le sorse dentro quando ricordò come l’aveva picchiata. Non avrebbe mai voluto farle del male, neanche dopo la crudeltà che le aveva dimostrato. Neanche con il cuore a pezzi e impossibile da medicare.

      Arrivando sul retro del capanno, spiò all’interno attraverso una fessura nella parete. Vedendo che era vuoto vi entrò e recuperò le spade. Ma proprio quando stava per sollevare l’asse sotto alla quale aveva nascosto la sua spada, udì delle voci che provenivano dall’esterno.

      Si alzò in piedi e diede un’occhiata attraverso un piccolo buco nella parete, e con suo orrore vide sua madre e Sartes che avanzavano verso il capanno. Sua madre aveva un occhio nero e una ferita alla guancia, e a vederla ora viva e vegeta, a Ceres venne da ridere sapendo che era stata lei a ridurla così. Tutta la rabbia sgorgò di nuovo al pensiero di come sua madre aveva pensato di venderla.

      “Se ti becco a passare cibo a Ceres, ti prendo a frustate, hai capito?” disse sua madre con tono secco a Sartes mentre passavano vicino all’albero della nonna.

      Quando Sartes non rispose, sua madre gli diede una sberla in faccia.

      “Hai capito, ragazzo?” gli chiese di nuovo.

      “Sì,” disse Sartes abbassando lo sguardo con le lacrime agli occhi.

      “E se mai la vedessi, portala a casa in modo che possa darle una passata che mai si dimenticherà.”

      Ricominciarono a dirigersi verso il capanno e il cuore di Ceres si ritrovò improvvisamente a martellare selvaggiamente. Afferrò le spade e scattò attraverso la porta sul retro più velocemente e più silenziosamente che poté. Proprio quando fu uscita, la porta sul davanti si aprì e lei si appoggiò al muro esterno restando in ascolto, le ferite provocate dagli artigli dell’omnigatto che ancora bruciavano sulla schiena.

      “Chi va là?” disse sua madre.

      Ceres trattenne il fiato e serrò gli occhi.

      “So che sei lì,” disse sua madre aspettando. “Sartes, vai a controllare la porta sul retro. È spalancata.”

      Ceres si strinse le spade al petto. Udì i passi di Sartes che venivano verso di lei, quindi lo sentì aprire la porta con un cigolio.

      Sartes sgranò gli occhi vedendola e sussultò.

      “C’è qualcuno?” chiese sua madre.

      “Ehm… no,” disse Sartes con gli occhi che si riempivano di lacrime guardando in quelli di Ceres.

      Ceres disse un muto ‘grazie’ e Sartes le fece cenno con la mano di andarsene.

      Lei annuì e con il cuore pesante se ne andò di soppiatto verso il campo mentre la porta sul retro del capanno veniva sbattuta e chiusa. Sarebbe tornata più tardi a recuperare la sua spada.

*

      Ceres si fermò davanti ai cancelli del palazzo, sudata, affamata ed esausta, le spade in mano. I soldati dell’Impero stavano di guardia e la riconobbero subito come la ragazza che consegnava le spade di suo padre, lasciandola passare senza porre domande.

      Ceres attraversò frettolosamente il cortile interno e svoltò verso la bottega in pietra del fabbro, dietro a una delle quattro torri. Entrò.

      In piedi vicino all’incudine, davanti alla fornace scoppiettante, il fabbro colpiva con il martello una lama incandescente, il grembiule di pelle che lo proteggeva dalle scintille che volavano. L’espressione preoccupata sul suo volto la fece riflettere su cosa ci fosse che non andava. Era un gioviale uomo

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