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farlo. E poi avrebbe ucciso anche i suoi altri fratelli.

      Iniziò a sentirsi meglio a quel pensiero.

      Con sforzo supremo si mise a fatica in piedi e zoppicò attraverso la camera, andando a sbattere contro un tavolo. Avvicinandosi alla porta scorse un busto di alabastro che raffigurava suo padre. Era una scultura che suo padre aveva amato: la prese afferrandola per la testa e la scagliò contro la parete.

      Andò in mille pezzi e per la prima volta in quella giornata Gareth  riuscì a sorridere. Forse quel giorno, dopotutto, non era così male.

*

      Gareth entrò con irruenza nella Sala del Consiglio affiancato da numerosi servitori, sbattendo il portone di quercia e facendo sobbalzare tutti i  presenti. Velocemente si alzarono tutti in piedi mettendosi sull’attenti.

      Mentre normalmente un comportamento del genere gli dava una certa soddisfazione, quel giorno quasi non se ne accorse. Era tormentato dal fantasma di suo padre e pieno di rabbia per la fuga di sua sorella. Le emozioni vorticavano dentro di lui e aveva bisogno di sfogarsi.

      Attraversò zoppicando la grande sala, ancora intontito dall’oppio, e raggiunse il centro dove si trovava il suo trono. Decine di uomini del consiglio si alzarono in piedi al suo passaggio. L’energia che emanava dalla sua corte era più che mai elettrica, sembrava che la gente fosse più che mai in fibrillazione per la notizia della partenza di metà degli abitanti della Corte del Re e per la novità dello scudo non più funzionante. Era come se ciò che era rimasto della Corte del Re si fosse riversato lì per avere delle risposte.

      E ovviamente Gareth non ne aveva.

      Salendo barcollando gli scalini fino al trono di suo padre, vide, paziente dietro ad esso, Lord Kultin, il capo mercenario del suo esercito privato, l’unico uomo rimasto a corte di cui si potesse realmente fidare. Accanto a lui erano schierate decine di guerrieri, in silenzio, le mani posate sulle loro spade, pronti a combattere fino alla morte per Gareth. Era l’unica cosa che gli desse un po’ di conforto.

      Gareth si sedette sul trono e guardò la stanza. C’erano così tanti volti: un pochi li riconobbe, ma molti non li conosceva. Non si fidava di nessuno di loro. Ogni giorno eliminava qualcuno per purificare la sua corte, ne aveva già mandati un sacco nelle segrete e ancora di più sul patibolo. Non passava giorno che non uccidesse almeno una manciata di uomini. La riteneva una buona politica: teneva le persone al loro posto ed era un’ottima prevenzione contro ogni colpo di stato.

      Nella sala regnava il silenzio e tutti lo guardavano stupiti. Sembravano tutti terrorizzati all’idea di prendere la parola. Ed era proprio ciò che lui desiderava. Non c’era niente di più eccitante che infondere paura nei suoi sudditi.

      Alla fine fu Aberthol a fare un passo avanti, il bastone risonante contro il pavimento, schiarendosi la voce.

      “Mio signore,” iniziò con voce antica, “ci troviamo in un momento di grande scompiglio nella Corte del Re. Non so quali notizie vi siano già giunte: lo Scudo è inattivo, Gwendolyn ha lasciato la Corte del Re ed ha preso con sé Kolk, Brom, Kendrick, Atme, l’Argento, la Legione e metà del vostro esercito, insieme a metà della Corte stessa. Quelli che sono rimasti guardano a voi come guida, per sapere quale sarà la nostra prossima mossa. Il popolo vuole delle riposte, mio signore.”

      “Per di più,” aggiunse un altro membro del consiglio che Gareth riconobbe vagamente, “si è diffusa la notizia che il Canyon sia già stato oltrepassato. Si dice che Andronico abbia invaso la parte dei McCloud con il suo esercito di milioni di uomini.”

      Un sussulto indignato si diffuse nella sala: decine di valorosi guerrieri iniziarono a bisbigliare tra loro, assaliti dalla paura, e uno stato generale di panico si espanse a macchia d’olio come un incendio.

      “Non può essere vero!” esclamò un soldato.

      “Invece lo è!” rispose il membro del consiglio.

      “Se è così, ogni speranza è perduta,” gridò un altro. “Se i McCloud vengono conquistati, l’Impero verrà poi verso la Corte del Re. Non c’è modo di tenerli a bada.”

      “Dobbiamo discutere i termini di resa, mio signore,” disse Aberthol a Gareth.

      “Resa!?” gridò un altro uomo. “Non ci arrenderemo mai!”

      “Se non lo facciamo,” intervenne un altro, “saremo annientati. Come possiamo fronteggiare un milione di uomini?”

      Nella stanza si diffuse un brusio concitato, i soldati e i consiglieri iniziarono a discutere tra loro in un generale disordine.

      Il capo del consiglio sbatté il bastone di ferro sul pavimento e gridò: “ORDINE!”

      Gradualmente tutti fecero silenzio. Gli uomini si voltarono verso di lui.

      “Queste sono decisioni che spettano al re, non a noi,” disse uno degli uomini del consiglio. “Gareth è il legittimo sovrano e non sta a noi discutere i termini di resa, o se arrenderci del tutto.”

      Tutti si voltarono verso Gareth.

      “Mio signore,” disse Aberthol con voce esausta, “come dite di comportarci con l’esercito dell’Impero?”

      Un silenzio di tomba calò nella sala.

      Gareth rimase seduto a guardare gli uomini che attendevano una risposta da lui. Ma era sempre più difficile schiarirsi le idee. Continuava a sentire nella sua testa la voce di suo padre che gli gridava contro, come quando era bambino. Lo stava facendo impazzire e non smetteva un solo momento.

      Grattò ripetutamente i braccioli del trono con le unghie: era l’unico rumore che si poteva udire nella stanza.

      I membri del consiglio si scambiarono sguardi preoccupati.

      “Mio signore,” insistette un altro membro del consiglio, “se deciderete che non dobbiamo arrenderci, allora dovremo fortificare subito la Corte del Re. Dobbiamo rendere più sicuri tutti gli ingressi, le strade, i cancelli. Dobbiamo richiamare tutti i soldati e preparare la difesa. Dobbiamo prepararci a un assedio, razionare il cibo, proteggere i cittadini. C’è molto da fare. Vi prego, mio signore. Dateci degli ordini. Diteci cosa fare.”

      Di nuovo scese il silenzio e tutti gli occhi rimasero fissi su Gareth.

      Alla fine Gareth sollevò il mento e li guardò.

      “Non combatteremo contro l’Impero,” dichiarò. “Ma neppure ci arrenderemo.”

      Tutti si guardarono confusi.

      “E allora cosa faremo, mio signore?” chiese Aberthol.

      Gareth si schiarì la voce.

      “Uccideremo Gwendolyn!” dichiarò. “È tutto ciò che conta ora.”

      Seguì un silenzio scioccato.

      “Gwendolyn?” chiese un membro del consiglio mentre gli altri erompevano nuovamente in un mormorio incontrollato.

      “Le manderemo contro tutte le nostre forze armate, faremo massacrare lei e quelli che la stanno seguendo prima che raggiungano Silesia,” continuò.

      “Ma, mio signore, come può esserci d’aiuto questo?” chiese un membro del concilio. “Se ci avventuriamo all’attacco di Gwendolyn, questo non farà che lasciare esposti i nostri eserciti. Saranno presto circondati e massacrati dall’Impero.”

      “E anche la Corte del Re verrà così lasciata libera di essere attaccata,” aggiunse un altro. “Se non abbiamo intenzione di arrenderci, dobbiamo fortificare la città il prima possibile!”

      Un gruppo di uomini iniziarono a discutere a voce alta.

      Gareth si voltò a guardare i membri del consiglio con occhi di ghiaccio.

      “Useremo tutti gli uomini che abbiamo per uccidere mia sorella,” disse con tono cupo. “Non ne risparmieremo neanche uno.”

      Nella sala calò nuovamente il silenzio e uno dei membri del consiglio spinse indietro la sua sedia, facendola strisciare rumorosamente sul pavimento e alzandosi in piedi.

      “Non starò a guardare la Corte del Re rovinata dalla vostra ossessione personale.

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