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all’estremità del quale era inciso nel ferro l’emblema del suo regno: un leone con un uccello tra le fauci. Avvampava, arancione e caldo rovente, e mentre gli altri tenevano fermo McCloud, l’uomo abbassò il ferro contro la sua guancia nuda.

      “NO!” McCloud strillò rendendosi conto di cosa stava accadendo.

      Ma ormai era troppo tardi.

      Un grido terrificante tagliò l’aria, accompagnato da un sibilo e dal puzzo di carne bruciata. Andronico guardò con soddisfazione l’attizzatoio che affondava nella guancia di McCloud bruciandola. Il sibilo era sempre più forte e le grida quasi insopportabili.

      Alla fine, dopo dieci secondi buoni, lo lasciarono andare.

      McCloud si afflosciò sul pavimento, privo di conoscenza, sbavando, mentre il fumo si levava dalla metà bruciacchiata della sua faccia. Ora portava, stampato nella carne, l’emblema di Andronico.

      Andronico si chinò in avanti, guardò il corpo privo di conoscenza di McCloud e ammirò il lavoretto appena fatto.

      “Benvenuto nell’Impero.”

      CAPITOLO DUE

      Erec si trovava in cima alla collina, al limitare della foresta, e guardava il piccolo contingente armato che avanzava. Il cuore gli bruciava di ardore. Era nato per un giorno come quello. In alcune battaglie la linea di demarcazione sfumava tra giusto e ingiusto, ma non in una giornata come quella. Il signore di Baluster aveva sfacciatamente rubato la sua sposa e si era comportato da spaccone, per nulla dispiaciuto per ciò che aveva fatto. Era stato messo al corrente del suo crimine, gli era stata data la possibilità di ratificare i suoi errori, eppure lui si era rifiutato. Si era preso gioco dei suoi dolori. I suoi uomini avrebbero dovuto lasciar perdere, soprattutto ora che egli era morto.

      Invece stavano avanzando, in centinaia: mercenari pagati da quel signorotto mediocre, tutti lanciati con lo scopo di uccidere Erec solo perché quell’uomo li aveva pagati. Procedevano verso di lui nelle loro scintillanti armature verdi, e mentre si avvicinavano lanciavano grida di guerra. Come se una cosa del genere potesse mai spaventarlo.

      Erec non aveva la minima paura. Aveva visto troppe battaglie come quella. Se aveva imparato qualcosa nei suoi lunghi anni di allenamento, era di non avere mai paura quando combatteva dalla parte del giusto. Gli avevano insegnato che la giustizia non aveva sempre la meglio, ma poteva donare a chi la sostenesse la forza di dieci uomini.

      Non era paura quella che Erec provava mentre guardava l’avanzata di quelle centinaia di uomini, consapevole che sarebbe probabilmente morto. Era attesa. Gli era stata concessa la possibilità di affrontare la propria morte nel modo più onorevole, e questo era un dono. Aveva fatto un voto di gloria e quel giorno quel voto gli domandava ciò che era dovuto.

      Erec sguainò la spada e iniziò a correre a piedi giù dalla collina, rapido contro l’esercito che gli galoppava contro. In quel momento desiderava più di ogni altra cosa di poter avere il suo fidato destriero, per affrontare la battaglia a cavallo, ma provava un senso di pace sapendo che Warkfin stava riportando Alistair a Savaria, sana e salva alla corte del duca.

      Quando fu più vicino ai soldati, ormai a neanche cinquanta metri da lui, Erec prese velocità deciso a colpire il cavaliere che stava a capo del gruppo, esattamente al centro. L’esercito non rallentò, e neppure Erec lo fece, preparandosi allo scontro ormai imminente.

      Sapeva di avere un vantaggio: trecento uomini non potevano fisicamente avvicinarsi abbastanza da attaccare un uomo solo nello stesso istante. Aveva imparato dal suo allenamento che al massimo sei uomini a cavallo potevano arrivare sufficientemente vicini a un uomo a terra. Per come la vedeva Erec, ciò significava che lo scontro non era trecento a uno, ma solo sei a uno. Se fosse riuscito ad uccidere sei uomini alla volta, aveva delle possibilità di vittoria. Tutto ovviamente dipendeva dalla sua resistenza e se questa sarebbe stata sufficiente a sostenerlo per tutta la durata della battaglia.

      Scendendo dalla collina, Erec estrasse dalla cintura l’arma che sapeva essere la migliore: un mazzafrusto con una catena lunga dieci metri, all’estremità della quale era appesa una palla chiodata. Era il genere di arma generalmente utilizzata per tendere trappole lungo la via, o per situazioni come quella.

      Erec attese l’ultimo momento, fino a che fu certo che l’esercito non avesse tempo per reagire, poi fece roteare il mazzafrusto sopra la propria testa e lo scagliò verso il campo di battaglia. Mirò a un piccolo albero e la catena si srotolò attraverso il campo. Quando la palla si fu attorcigliata attorno all’albero, Erec iniziò a rotolare a terra, evitando così le lance che i nemici gli stavano scagliando, tenendosi alla catena con tutte le sue forze.

      Il suo tempismo fu perfetto: l’esercito non ebbe alcun tempo per reagire. Videro la catena all’ultimo momento e cercarono di fermare i cavalli, ma stavano procedendo troppo velocemente e fu troppo tardi.

      L’intera prima linea inciampò nel cavo, che tagliò le gambe dei cavalli mandando a terra i cavalieri, seguiti a ruota dalle loro cavalcature che atterrarono su di loro. Decine di uomini collassarono a terra in un grande caos generale.

      Erec non ebbe il tempo per essere orgoglioso di quanto aveva fatto: un altro contingente girò e si lanciò contro di lui, avanzando con un grido di battaglia. Erec balzò in piedi pronto ad affrontarli.

      Quando il cavaliere a capo del gruppo sollevò il suo giavellotto, Erec prese vantaggio dalle sue risorse: non aveva un cavallo, non poteva affrontare quegli uomini alla loro altezza, ma essendo basso poteva utilizzare il terreno sotto di lui. Improvvisamente si tuffò in terra, rotolò, sollevò la spada e tagliò le gambe del cavallo del primo cavaliere. L’animale inciampò e il soldato cadde a terra senza avere neanche l’occasione di usare la sua arma.

      Erec continuò a rotolare e riuscì a schivare le zoccolate dei cavalli attorno a sé, che dovettero dividersi per evitare di calpestare il cavallo caduto a terra. Molti non vi riuscirono e incespicarono sull’animale morto, collassando a terra e sollevando un nuvola di polvere, causando così un vero e proprio ingorgo nel mezzo dell’esercito.

      Era proprio ciò che Erec aveva sperato: polvere e confusione, decine di soldati e cavalli a terra.

      Balzò in piedi, sollevò la spada e parò un colpo che stava scendendo contro la sua testa. Ruotò su se stesso e bloccò un giavellotto, poi una lancia, poi ancora un’ascia. Si difese contro colpi che gli piovevano contro da ogni parte, ma sapeva che non avrebbe potuto resistere a lungo. Doveva rimanere all’erta se voleva conservare una minima possibilità.

      Erec rotolò di nuovo, uscì da quel pandemonio, si poggiò su un ginocchio e lanciò la spada come fosse una lancia. L’arma volò in aria e si conficcò nel petto del soldato più vicino. Questo sgranò gli occhi e cadde di lato dal suo cavallo, morto.

      Erec colse l’occasione per balzare sul cavallo, prendendo il mazzafrusto dalle mani dell’uomo. Si trattava di un’arma ben fatta ed Erec l’aveva individuata per quel motivo: aveva un’asta d’argento borchiata e una catena di un metro e mezzo con tre palle chiodate all’estremità. Erec la tirò all’indietro  e la fece roteare sopra la testa, andando a spazzare via le armi dalle mani di diversi avversari in un colpo solo. Poi, con un altro colpo, li fece cadere dai loro cavalli.

      Poi perlustrò il campo di battaglia e notò che aveva atterrato quasi un centinaio di cavalieri. Ma gli altri, ancora almeno duecento, si stavano lanciando contro di lui tutti insieme proprio in quel momento, ed erano decisamente determinati.

      Erec galoppò loro incontro, un uomo solo contro duecento, e levò un forte grido di battaglia, brandendo il suo mazzafrusto e pregando Dio che la sua forza lo sostenesse.

*

      Alistair piangeva mentre si teneva stretta a Warkfin con tutta la sua forza, mentre il destriero galoppava portandola lungo la fin troppo familiare strada per Savaria. Per tutto il tempo aveva calciato e gridato contro il cavallo, cercando di fare il possibile per farlo girare e tornare da Erec. Ma lui non l’aveva ascoltata. Non aveva mai incontrato un cavallo del genere prima d’ora: ascoltava risoluto il comando del suo padrone e non esitava un secondo. Era ovviamente intenzionato a portarla dove Erec gli aveva ordinato, e alla fine non poté che rassegnarsi al fatto che non c’era nulla da fare.

      I

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