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un giorno (e' doveva pur giungere!) la fanciulla non gli era più corsa incontro come soleva; non gli si era gettata al collo, non lo aveva più baciato; nemmanco gli aveva profferta con soave atto la fronte, come usava co' suoi genitori. Lo aveva in quella vece accolto con una certa gravità impacciata, che la faceva due cotanti più bella; lo aveva salutato con un «buon dì, messer Giacomo» profferito a mezza voce, ed aveva arrossito dal sommo della fronte fino alla radice del collo.

      Ed egli si era inchinato, come solea fare colla madre di lei; nè aveva trovato cosa a ridire intorno alla novità delle sue accoglienze; ma quel riguardoso saluto e quel rossore, che tradiva i casti segreti della pubertà nascente, gli avevano recato arcane commozioni nel sangue, dischiuso un mondo ignoto allo spirito.

      Da quel giorno aveva pensato; più del bisognevole e del ragionevole aveva pensato al nuovo aspetto di quella fanciulla, de' cui baci infantili erano calde tuttavia le sue guance. E una gran sete di quei baci improvvisamente cessati gli riardeva le labbra. Ma non erano più i baci della fanciulla, non erano più i casti baci fraterni, che egli ripensava in quel punto.

      Da quel giorno si fece più grave; da quel giorno il suo volto, gli atti, i pensieri, i modi del suo vivere, assunsero quel non so che di bizzarro e di fantastico, donde la gente volgare toglieva indizio di alterigia, non dicevole punto al suo umile stato di vassallo. Presso i famigliari del marchese dicevasi in quella vece che la guerra avea fatto del giovine un uomo, del donzello un capitano. Ed uomo e capitano, messer Giacomo Pico era più bambino che mai. Del suo futuro non aveva un concetto, un proponimento formato; viveva alla giornata; lieto quando gli fosse dato vedere il suo conforto, triste ed uggioso quando ne fosse lontano.

      La corte dei marchesi del Finaro aveva nelle sue consuetudini alcun che della vita patriarcale. Però, in quella beata intrinsichezza della famiglia, le occasioni di vedere Nicolosina e di starle accanto eran molte e frequenti. Per altro, erano anche in buon dato le occasioni di lontananza. Il marchese Galeotto, pari in cotesto a tutti gli animi grandi, quando aveva messo l'amor suo in alcune, non conosceva misura. E grato al Bardineto della conservata libertà, fors'anco della vita, in lui aveva riposto ogni sua fede, con lui si consigliava in ogni più grave bisogna, lui, come suo messo fidato, o come un altro sè stesso, mandava di sovente d'una in altra villata a recarvi i suoi ordini, a chieder ragguaglio d'ogni novità che occorresse. Conosciuto dovunque come il più caro amico del marchese, messer Giacomino (così dimesticamente lo chiamavano i terrazzani) era ossequiato ed obbedito da tutti.

      Così viveva il Bardineto, senza por mente al domani. Amava, senza proporsi una meta, senza sperar nulla di certo; amava, ecco tutto, e fidava alle onde tranquille il fragile schifo della sua giovanile fortuna. Però, quando Giano Fregoso, fattosi pur dianzi signore e doge di Genova, ebbe mandato Bartolomeo Cecere a dimandar la mano di Nicolosina, per la prima volta il povero Bardineto tremò, sentì come una mano di ferro che gli agguantasse il cuore. E non cessò lo spasimo suo, fino a tanto non ebbe udite dal labbro del marchese queste consolanti parole:

      –«A Giano, prestantissimo uomo, rendo, o messere, le grazie che per me si posson maggiori, che in ciò liberale si mostra ed amicissimo mio. Senonchè, la figliuola mia è troppo giovine per andarne a marito, e in cosiffatti negozi occorre maturità di consiglio. Ben so a qual patto vecchi nemici possano raccostarsi; però consentite, messere, che di cotesto io m'abbia a dare più lunga e meditata risposta in iscritto».

      Così era bellamente pagato il Fregoso. Ma egli, inteso l'animo dell'avversario, tosto aveva adunato il Consiglio e messo mano a più saldi argomenti. E poco dopo l'ambasciata del Cecere, andavano alla corte di Galeotto, oratori non più di Giano Fregoso, privato cittadino, bensì del Doge e del Consiglio, un Giacomo di Leone e un Galeazzo Pinello.

      –«Marchese Galeotto,—avean detto costoro,—i Genovesi, quanto è in poter loro, detestano le inimicizie e meglio in pace coi vicini amano vivere, che in guerra. Esortano te a volere il medesimo, e a mostrarne il desiderio, ritenendo ciò che è tuo, restituendo l'altrui. Possiedi Castelfranco, già da essi murato e ad essi appartenente quasi per gius di dominio. Sai una terza parte del Finaro doversi ai Genovesi, e come soggetta e come venduta. Sai esser Giustenice loro dominio del pari. Tutto ciò, dunque, ripetono essi da te, e ti pregano ad amar meglio di concederlo pacificamente, anzichè di doverlo rendere per forza di guerra. Inoltre, sarebbe fuori dalle consuetudini d'amicizia e di pace che presso te rimanesse ospite più a lungo messer Barnaba Adorno, già doge, oggi nimico della Repubblica. A te il vedere che cosa ti convenga di fare; se mandarlo a Genova, o voler guerra da lei».

      Vivaddio, era questo un alzar la visiera, e di nozze non si facea più discorso. Giacomo Pico aveva dato un respiro di consolazione. Non era uno sposo temuto, quegli che minacciava la guerra.

      E l'aveva di grand'animo accettata il marchese.

      –«Io ben so che me la farete,—aveva egli risposto,—se ciò che dite pensate, e se più oltre su voi comanderanno i Fregosi. Così fosse la puntaglia soltanto tra essi e me, che agevolmente la condurrei a buon termine! Invero, aver guerra co' Genovesi mi duole; ma sappiatelo, messeri; avrei caro il morire, anzichè far cosa veruna contro la dignità del mio nome, e l'onore di buon cavaliere. Signore di Genova era Filippo Maria Visconti, per propria dedizione dei cittadini; a lui lecito di disporre a sua posta d'ogni possedimento di Genova. Egli mi donò Castelfranco e Giustenice; nè di ciò, e molto meno della terza parte del Finaro, mi tengo io debitore ai Genovesi. Credete il contrario? Orbene, facciamo giudice del piato l'imperator de' Romani, o il re di Francia, o l'Università degli studi di Bologna, o quella di Pavia; venga da principe, o da collegio di giureconsulti, il giudizio sarà legge per me. Niente farò io di Barnaba Adorno; intorno a ciò, arrossisco di avervi a rispondere, più che voi di avermene a chiedere. Ch'io manchi alla mia fede! Ch'io tradisca un prestantissimo uomo, qua venuto a rifugio come in terra neutrale, e lo dia in mano a' suoi nemici! Non lo sperate da me. Guerra minacciate; e sia; il cielo provvederà. Voi questo rispondete al Consiglio: prima verrà meno a Galeotto ogni altra cosa che l'animo.»—

      Nobili parole, sebbene un genovese d'allora avrebbe potuto trovarci alcuna cosa a ridire. Ben s'era commessa la Repubblica alla signorìa del Visconti, ma per essere tutelata dalle intestine discordie, non tradita a' suoi nemici; infine, scosso da dodici anni il giogo di lui, doveva ripetere tutti i suoi diritti sugli altri, nè riconoscere donazioni e larghezze del suo a coloro che, come appunto il marchese del Finaro, si adoperavano sempre a' suoi danni. Ma di ciò non occorre dir altro; che ad entrare nel pro e nel contro della ragion di stato d'allora, si dovrebbe dare ad ognuno la sua parte di torto. Va in quella voce notato che alla corte del marchese Galeotto piacque la fiera risposta, e più assai che ad ogni altro, a Giacomo Pico, il quale intravvedeva nella prossima lotta occasione di gloria.

      Eppure, come già conosce il lettore, non la era anche finita colle ambasciate. Dopo i due oratori della Repubblica, erano venuti Ladislao Guinizzo e Francesco Caito, inviati di Giano, a chieder da capo Nicolosina in moglie. Della dote mettevano questo patto: mandasse a Genova messer Barnaba Adorno; da lui i Fregosi, come da nimico prigione, avrebbero pigliato il riscatto di diecimila genovini d'oro, che sarebbero andati in dote alla sposa.

      A cosiffatta proposta, più che alla ostinatezza di Giano, si sdegnò grandemente il marchese.

      –Mi turba la dimanda,—rispose,—e peggio ancora, mi muove lo stomaco. Tristo è Giano e tristo mi crede. A tal uomo, e di tali nefandezze capace, io non sarei per concedere mai la figliuola mia, anco se molto maggior dote le costituisse del suo.—

      Così avevano avuto fine le pratiche celate presso il marchese. Ma ben altro tentavano ancora i Fregosi presso il parentado di lui, per rimuovere i Carretti delle Langhe dal proposito di aiutare il loro consanguineo. Il quale, di certo, per assegnamento fatto su questi, più che per fidanza vera nelle sue forze, mostrava animo tanto deliberato a resistere.

      Era in quel tempo tra tutti i signori Del Carretto come un patto d'alleanza, per cui, se ad uno di loro si recasse alcun danno, a tutti si reputasse ugualmente recato, e tutti avessero a mettersi in armi per vendicare i torti di un solo. L'antica divisione dell'eredità di Enrico Guercio in tre parti e le altre divisioni avvenute in processo di tempo, che avevano di soverchio sminuzzate le forze di que' discendenti d'Aleramo, chiarivano di per sè necessario quel patto di famiglia. Dicevasi la lega dei Carretti; e invero, se fosse stata così salda nel fatto come nella mente

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