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Arthur Schopenhauer

      1

      Sandra Alti era una bella donna – di quelle belle donne che rimangono impresse nella mente di chi le trova nel suo cammino. Non aveva quella bellezza perfetta – stile Barbie, con capelli platino, occhi cielo e fisico asciutto – ma sapeva produrre invidia nelle donne ed eccitamento negli uomini. Procace e seducente, maliziosa in sguardi e frasi, mai ingenua – anche se sapeva fingere bene, il più delle volte, di esserlo… se non altro per attirare su di sé ancora più ammirazione – sapeva nascondere il suo egoismo dietro frasi di circostanza e finto interesse. Era sempre stata una prima donna, e mai e poi mai avrebbe ceduto trono, scettro e corona a qualcun’altra. Se non ti ascoltava non era mai perché era un po’ sorda – come talvolta sosteneva, seppur con poca convinzione, al fine di rendere le cose meno evidenti – ma perché semplicemente o non le interessavi tu o non si curava di ciò che avevi da dire. Le sue armi – infallibili e precise – erano un’estrema autostima – nessuno mai avrebbe potuto farle pensare che non valeva; chiunque ci avesse, in passato, provato, era finito in un bar malconcio a bere sulla sua stupidaggine – e un Gucci sui polsi. Non aveva un lavoro molto soddisfacente – faceva l’imballatrice presso una grossa azienda di giochi per bambini – ma aspettava, di continuo e senza mai perdere di vista l’obiettivo, la sua occasione come scrittrice. Erano anni che provava a scrivere; aveva iniziato una favola, un romanzo e un bel paio di racconti per bambini, tuttavia, puntualmente, si ritrovava a chiudere il PC e a tornare alle faccende domestiche. Le mancava quel non so che necessario per trovare l’idea vincente. Non si sarebbe arresa – «Mai!» aveva giurato a se stessa, qualche inverno prima – ma per ora si limitava a svolgere una vita annoiata e disinteressata. Suo marito Edmund Bellavista, per tutti Eddie, del resto aveva smesso di prenderla sul serio: lei non avrebbe nemmeno saputo dire perché, ancora, dopo tutti quegli anni, fossero ancora sposati, visto che l’interesse era finito da un pezzo.

      Era proprio a questo che pensava, in quell’umida mattina di fine aprile, mentre, in mano un bicchiere di vino bianco, faceva un bagno caldo nella vasca a idromassaggio.

      Pensava a quanto fosse infelice la sua esistenza. Una grande casa e due estranei che vi abitavano. Nulla di nuovo, nulla di speciale… nulla e basta. Il bagno, nei suoi colori tenui, era il luogo adatto per riflettere sul senso della vita. Un senso che, tuttavia, ora a lei sfuggiva: «Perché continuare a fingere?» concluse, stancamente. Poi pensò allo stipendio di lui – di netto superiore al suo – e tutte le soluzioni le giunsero al cervello annacquato di acqua e profumi per bagno.

      «Sono a casa!» urlò Eddie, dal piano inferiore. Lanciò la borsa nella poltrona e si diresse in cucina. Nessuna risposta, ma ci era abituato. Solo cercava di avvisarla quando entrava in quella casa che era di entrambi; se non altro per non far succedere quello che era capitato qualche tempo prima.

      Era stata una giornata faticosa in ufficio, ma era riuscito a terminarla in modo più indolore possibile. Non aveva avvisato Sandi che stava rientrando: solitamente quando faceva tardi dormiva da Sergio, suo amico e compare, ma quest’oggi, liquidata la sua solita proposta si era diretto verso casa. Aveva bisogno di un bel bagno e del suo letto.

      Entrò in casa cercando di non fare rumore e si diresse verso il frigo bar. Prese una bottiglia di Montenegro e ne versò una quantità generosa in un bicchiere pesante di vetro, con quattro cubetti di ghiaccio. Poi si stravaccò nella poltrona verde del salotto, non prima di aver sbattuto sonoramente un ginocchio nel tavolino in vetro dinanzi a sé. Pochi minuti dopo fecero irruzione in casa sua due poliziotti. Fu allora che Sandi, pallida e nervosa, fece capolino dalla scala. Era furioso.

      «Ora non posso nemmeno entrare quando mi pare in casa mia, Sandi? Vuoi sbattermi fuori?» domandò, stizzito.

      «No, è che io…», lei non riuscì a terminare la frase. Si sentiva sciocca, in quel momento. Ora capiva. Certo: un ladro non avrebbe fatto tutto quel trambusto.

      «Agenti, è mio marito, potete andare…» aggiunse, imbarazzata.

      Uno degli agenti ci mise un secondo a digerire l’informazione, e Eddie capì subito perché. Sandi aveva una vestaglia in pizzo e la biancheria, rosso fuoco, brillava al di sotto. Non si era struccata dalla sera precedente, e la sua bellezza rifulgeva di luce propria, in quella scala buia.

      «Fuori, per favore… vorrei discutere con mia moglie.» sbottò nervosamente enfatizzando, forse in modo eccessivo, la parola “moglie”.

      «Ci scusi… arrivederci.»

      «Che diavolo hai indosso? C’è un altro uomo, su con te?»

      «Che diavolo dici? La metto per sentirmi sexy, dato che tu non sei capace di darmi questa semplice soddisfazione.»

      «Ok, come ti pare.» terminò scortesemente lui, girandole le spalle.

      

      Si riprese da questa visione passata, e aprì lo stesso frigo bar di quella notte. Stesso bicchiere, stesso liquore e stessa quantità di ghiaccio. Persino stessa poltrona. Chiuse gli occhi, distese i piedi e li poggiò sul tavolino. Era una brava persona, pratica e sempre gentile. Passionale e coraggioso, era anche tenace, non mollava mai. L’unica cosa che non avrebbe mai potuto – nemmeno con la forza dell’intero universo – migliorare era lo stato del suo matrimonio. L’aveva amata, e tanto anche e ancora, seppur di rado perché la distanza metteva delle barriere invalicabili tra loro, si ritrovava a desiderarla. Aveva una moglie bellissima ma era più a portata di mano la Luna che il suo corpo.

      Sarà che quando una cosa si rompe non si riaggiusta mai per bene; sarà che le sofferenze non avvicinano, checché se ne dica; e sarà anche che il matrimonio di due persone così differenti non era destinato, dal primo giorno, a finire bene.

      O sarà che per tenere unito un filo che passa per due persone è necessario che entrambi lo tengano; nessuno dei due era più disposto a farlo, e quel filo giaceva, esanime, nel mezzo.

      Si sganciò la cravatta, e il primo bottone dei pantaloni. Dopo aver guardato un po’ di televisione si diresse, esausto, verso la camera da letto al piano di sopra.

      Dormivano ancora insieme, non sapeva perché. Quel gesto sciocco, considerata la situazione, gli dava tuttavia un senso di normalità in tutto quel caos.

      Si tolse, lentamente e senza far rumore, i vestiti. Poi alzò un lembo di coperta e si infilò accanto alla donna che aveva sposato circa 15 anni prima. La guardò di sfuggita. Un raggio di luna che penetrava dalla finestra le illuminava il volto pacato, tranquillo. Lui sperò stesse sognando. Avvicinò la mano per sfiorarla e subito un ricordo lo travolse, come un camion.

      «Metti la mano sulla pancia, Eddie!»

      «Quando? Adesso?» rispose, nervoso, lui.

      «Sì, ora. Sai! Accidenti, hai perso il momento.» si espresse, infine, lei. La bambina si era momentaneamente calmata.

      «Porca miseria…»

      «Dai, tranquillo, fra un pochino si risveglia!»

      «Come la chiameremo, Sa’?»

      «Ah, non so… ho comperato un libro di nomi.»

      Si alzò, goffamente. La pancia era bella grossa, mancava un mese e mezzo e già lei si sentiva una balena. Stare seduta le doleva: la bimba premeva sulle costole provocandole delle fitte atroci.

      Gli porse un libretto arancione comprato da pochi giorni. Aveva annotato sui margini i nomi che l’avevano colpita.

      «Samantha?» disse lui, inarcando un sopracciglio. Non gli piaceva.

      «Bello, Sara. Anche Denise mi piace. Ma è più bello Ginevra.»

      «Sì, Ginevra è un gran nome.»

      «Allora permettimi di fare due coccole alla mia piccola Ginevra…» propose lui, con il sorriso sulle labbra.

      Si distese accanto a lei e le posò la mano sulla pancia, massaggiando il punto dove sua figlia, beata e indisturbata, cresceva.

      «Ma non sappiamo ancora

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