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badando a non strappar loro le penne maestre; ripuliva dal vischio le loro graziose zampine, e li rimandava con Dio, in nome di quella bellissima dama che era sparita pur dianzi.

      Poco stante capitava il babbo.—Orbene, non c'è stato nulla?—Nulla, babbo; uno sciame di lucherini ha dato nei rami, ma la pania non teneva e non ho fatto a tempo per coglierli; se ne sono volati via.

      E il babbo, che notava i piumini sulle verghe e la buona presa del vischio, a non credere un'acca dei discorsi dell'adolescente, a sgridarlo un tratto, ma compiacersi in cuor suo delle invenzioni del figlio, pur promettendo che non l'avrebbe più condotto ad uccellare con lui.

      Bei tempi, bei tempi! e chi non ha di somiglianti memorie, piccoli quadri dell'adolescenza, che si richiamano, si ridipingono e s'incorniciano tra le meditazioni dell'uomo adulto, belli di quella velatura ineffabile che distende sovr'essi la lontananza degli anni?

      Ed ecco come la vista di quel pino, sull'ultimo lembo della prateria sottostante, faceva fantasticare Laurenti, seduto presso il suo muraglione, colla sua Eneide tra mani.

      L'illusione delle circostanze era perfetta; non ci mancava neppure la castellana.

      Essa era laggiù, com'egli l'aveva sognata adolescente. Capelli neri e morbidi, chiusi in una reticella di filo d'oro, le cui larghe maglie non ne scemavano la lucentezza; la persona svelta e di graziosi contorni, a cui aggiungevano maestà e leggiadria le molli pieghe di una lunga veste di seta cenerognola e uno sciallo rosso di Persia, lavorato a fogliami, negligentemente raccolto intorno alla vita.

      Alla distanza in cui era, non si poteano distinguere i lineamenti del viso, ma s'indovinavano regolari e bellissimi, al soave effetto che facevano da lunge. L'ovale un tal po' allungato di quella faccia, la carnagione bianca, pallida come di una bella morente, richiamavano alla memoria una di quelle madonne in cui il pennello di Carlo Dolci ha così mirabilmente accoppiata, compenetrata quasi, la bellezza col patimento della materia, di guisa che il rimirarle vi sveglia ad un tempo la voluttà negli occhi e l'angoscia nel cuore.

      Laurenti rimase estatico a quella vista, senza sapere se vedesse da senno, o se per avventura non fosse quella una continuazione delle sue ricordanze giovanili. Poi, come avviene per simiglianti immagini del passato che fanno insieme tenerezza e sgomento, si sentì sopraffatto, e si fe' scorrere una mano sul fronte, quasi sperasse in tal modo dileguar dalla mente la diletta visione. Si provò a ripigliar l'Eneide e proseguir la lettura; ma il primo emistichio che gli cadde sott'occhi «Et vera incessu patuit Dea» non fece altro che richiamarlo all'argomento della sua contemplazione, e ricondurgli lo sguardo sotto quell'albero di pino.

      La dea era pur sempre colà, innanzi agli occhi suoi, dea al volto, al portamento, all'incesso. Ella era tuttavia sotto l'ombrello del pino, ma veniva lentamente in su pel sentiero sabbioso, la testa un tal po' reclinata sull'omero, come persona stanca, una mano al seno sui capi dello scialle, che senza quel ritegno sarebbe caduto, mentre l'altra, che si potea scorgere da lontano bianca e sottile, penzolava mollemente lungo le pieghe della veste fluente.

      Non era quella un'illusione per fermo. Il giovine meravigliato richiuse sull'indice le pagine aperte del libro e rimase intento a guardare la bianca apparizione. Per la prima volta dacchè dimorava lassù, egli vedeva qualcheduno, oltre il solito giardiniere, nella villa sottostante. La divinità misteriosa di quel tempio era là, pallida, sfinita, ma bella, come la principessa della favola, chiusa da un incantesimo di mago geloso in un castello dalle mura di diamante.

      La pallida signora si muoveva lentamente su pel sentiero, dando un'occhiata, ora a questo, ora a quello dei fiori delle aiuole circostanti. Ella si soffermava spesso, non tanto per guardarsi dintorno, come da lunge pareva, quanto per aspirare a labbra socchiuse (labbra di pallido corallo!) quell'aria tepida e ristoratrice. Appena ella fu presso ad un sedile di ferro dipinto, vi si lasciò andare la persona, come se fosse stanca oltremodo della via; adagiò gli omeri contro la spalliera, e rimase inerte, colle dita intrecciate, le braccia prosciolte, e gli occhi languidamente rivolti verso il sole, che si nascondeva allora dietro i monti d'Arenzano.

      Anch'ella, povera bella, fantasticava; ma, più infelice di Laurenti, ella soffriva, e le memorie che le tornavano in mente non erano punto liete, nè caramente malinconiche, come quelle del giovine naturalista.

      Venne la notte, ed ella era ancora sul suo sedile, nella istessa postura; Guido medesimamente fermo a guardarla, coll'indice tra le pagine del libro.

      L'ultimo filo di luce del crepuscolo rischiarò la doppia comparsa del giardiniere che andò a dar la mano alla signora per ricondurla nella palazzina, e del servitore di Laurenti che, temendo non s'infreddasse, da quell'uomo prudente ch'egli era, portava il cappello per coprir la testa al padrone.

      V

      Un nuovo e più vivace elemento entrava nella vita di Guido Laurenti. Era una bella e nobile vita la sua, intelligente, studiosa, operosa, e si disponeva acconciamente a diventar feconda d'intendimenti generosi. Ma il calore non c'era; non c'era quella tal cosa che fa dire col poeta latino: «spiritus intus alit». Egli era, se posso giovarmi del paragone, come un bel disegno senza colore, o come un bel paese senza luce, il che poi torna lo stesso, imperocchè i colori non sono che le sette persone di quella santissima Settenità. Ora, quel nuovo elemento era come l'alba che rischiara il paese, facendolo nuotare dapprima in una vaghissima nebbia, tinta a gradi con tutte le più soavi temperanze della tavolozza dell'iride, e dandogli da ultimo que' toni più giusti, que' lumeggiamenti ricisi, che fanno risaltare ogni cosa in tutta la sua schietta bellezza, colla debita osservanza a tutte le leggi della prospettiva.

      Tutte queste belle cose, che io dico del resto così male, non le disse a sè stesso, nè mal nè bene, il mio giovine protagonista. Egli non fece esame di coscienza allorquando, dopo aver pigliato il suo cappello dalle mani del servitore, stette ancora un pezzo immobile a guardare colà dove la bella gentildonna era sparita nel buio della sera, e non pensò neppure a farlo, quando con passi lenti e misurati rifece il viale del suo giardino per tornarsene in casa.

      A che cosa pensava egli, mutando i passi dell'uomo pensieroso? A nulla, proprio a nulla. E del pari senza pensare a nulla, entrò in casa, appiccò il cappello alla prima gruccia del cappellinaio, e andò svogliato a sedersi su d'un divano del suo salotto.

      Per la prima volta dopo dieci anni si sentì senza desiderio di metter mano a cosa veruna; se il servitore, vedutolo entrare colà, non si fosse affrettato ad accendere la lucerna, egli non avrebbe pensato a chiedere un po' di lume. E non pensava a nulla, non gli veniva neppure in mente di chiedere a sè stesso il perchè non pensasse a nulla.

      Si alzò, e poichè si vide dinanzi il cembalo, andò a sedersi alla tastiera, su cui non metteva le dita da parecchi mesi, e accesi i torchietti, si fece a suonare quella stessa musica che vide squadernata sul leggio. La era una mazurka, ed egli suonò la mazurka; poi diede di mano ad un altro quaderno, e suonò quel che c'era, dalla prima all'ultima nota, senza nemmanco badare al genere del pezzo. Senonchè, la era musica in minore, e il minore è come le ciliegie, che una tira l'altra; e Guido Laurenti, senza metter mano ad altri quaderni, suonò una infilzata di romanze malinconiche, andando da ultimo a immorbidirsi in quella famosa del Verdi: «Quando la sera, al placido» con tutto quello che segue.

      L'amore entrava, come i lettori vedono: c'era già la sera, e il placido chiarore del cielo stellato.

      Egli tuttavia, ripeto, non ne sapeva nulla, e continuava a suonare come se fosse stato quello lo studio e il passatempo di tutte le sere, in cambio della Trasformazione delle specie di Darwin, o del Cosmos di Alessandro Humboldt.

      Così del resto avviene mai sempre. Se l'uomo al primo mutar dell'aria fosse sollecito a mettere la sua brava flanella, non ci sarebbero più reumi nè bronchiti. E se ai primi segni di una simpatia, ma proprio ai primi, un uomo assennato facesse il suo esame di coscienza, pesasse il pro e il contro sulla bilancia, i rischi e i guadagni, io metto pegno che non andrebbe più innanzi. Ma, passano due giorni, e la flanella non è giunta a tempo per isviare la tosse; passano cinque, e i gagliardi propositi non custodiscono più dai colpi di un affetto veemente. La malattia è nei bronchi; la passione è giunta al cuore, e arrivederci col senno di poi!

      Il primo pensiero di Laurenti (gli era proprio tempo che tornasse a pensare!) fu per la gentildonna

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