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senza rumore e senza luce Jean Vital si recò quella notte alla capanna solitaria di là dal ponte di San Juan. Lungo la spiaggia i suoi passi cadevano lievi e silenziosi sulla sabbia; indi volse a destra, traversò il ponte e lasciò dietro di sè le luci del villaggio e la luminosa striscia del mare.

      E ben altro lasciò dietro di sè in quell'ora Jean Vital che i suoi focosi venticinque anni conducevano a perdizione.

      Seguendo la strada, da qualche anno quasi deserta, vide presto, a destra della via, ergersi – ombra sull'ombra – la capanna abbandonata.

      Stava per emettere un breve fischio allorchè ricordò l'ingiunzione del ragazzo: «Senza rumore!» E giunto sulla soglia e spinto l'uscio basso e socchiuso, il buio davanti a lui fu così nero che per istinto cercò in tasca gli zolfanelli.... Ma ecco che gli tornò alla memoria l'ordine tre volte ripetuto dal messaggero: «Senza luce».

      Si tolse la mano di tasca e la tese brancolando innanzi a sè; indi sussurrò a bassissima voce il nome della donna:

      – «Jamana!…»

      Un mormorio inarticolato gli rispose; una mano toccò il suo polso e lo trasse nella capanna.

      Un profumo strano e violento gli tagliò per un istante il respiro. Era come un odore di muschio e di bergamotto; e sotto a quella duplice e forte fragranza vagava un altro aroma, dolciastro, languido, quasi impercettibile....

      Ma la stretta al suo polso – egli la sentiva calda e tremante – lo traeva innanzi e in giù.... il suo piede toccò una stuoia.... e al suo respiro rapido e ansante rispose, lieve, un sospiro....

·······

      L'alba color grigio-perla illuminava fiocamente l'apertura quadrata della finestra, quando un leggero rumore lo svegliò. Prima ancora di ogni altro ricordo, giunse ai suoi sensi assopiti quello strano odore, dandogli una lieve impressione di stordimento.

      Senza aprire gli occhi allungò la mano e toccò accanto a sè una coperta ruvida, un posto vuoto.... Allora aprì gli occhi e vide disegnata sullo sfondo grigio del vano della porta, un'ombra. Era un'ombra femminea, ammantata di scuro, che apriva cautamente l'uscio. Gli parve di non ravvisarla. La chiamò.

      – Jamana!

      Ma la donna non si volse. Spalancò la porta e uscì correndo.

      Vital balzò in piedi, e così qual'era, senza giacca e senza scarpe, le fu dietro colla leggerezza rapida d'una pantera. La raggiunse, la ghermì per le braccia, le strappò dal capo lo scialle nero e la guardò.

      Un urlo gli sfuggì dalla bocca spalancata. Gittò le braccia in aria, e gli occhi parevano schizzargli dalla testa....

      E mentre la donna fuggiva, curva nella polvere, egli ululava, ululava strappandosi i capelli, dilaniandosi le carni, conficcandosi le unghie nella bocca come se volesse strapparsela dal viso. La bocca!…la bocca sua che aveva baciato quell'immonda cosa!…quel volto roso e sfigurato dalla lebbra!

      L'aurora lanciava pel cielo nastri di rosa e veli d'oro, allorchè Jean Vital ritraversò il ponte. Parlava forte da solo; gridava, gesticolando, scotendo i pugni al cielo.

      Andò a battere alla porta del dottor Harding. Questi si alzò da letto per aprirgli. Sulla soglia vide un essere ch'egli dapprima non riconobbe.

      – Lontano!…Stammi lontano – urlò Vital in frenesia, – sono contaminato!

      E stramazzò ai piedi di Harding, e sangue e schiuma gli uscivano dalla bocca lacerata....

·······

      Passò un anno. Non accadde nulla. Durante quell'anno parve a Jean Vital di trattenere il respiro. Non osava guardarsi in uno specchio per paura di vedere le stimmate orrende del morbo. Non osava guardare in faccia alla gente per paura di scorgere a un tratto nei loro occhi la rivelazione spaventosa.

      Passarono due anni. Allora, tremando, egli osò per la prima volta guardarsi in uno specchio. Si trovò magro, con un ciuffo di capelli bianchi sulle tempia, col viso pallido ma d'un pallore chiaro e sano. Allora prese a guardarsi continuamente; si portava intorno uno specchietto e cento volte al giorno se lo toglieva di tasca e si scrutava; si esaminava gli occhi, la bocca, il naso, le gengive, la gola.... Nulla.

      Passarono quattro anni. Passarono cinque anni. – Nulla. Jean Vital riprese a lavorare e a vivere. Era rimasto incolume; era sfuggito al contagio. La sua gioventù, il suo sangue sano avevano trionfato della mostruosa contaminazione.

      Ed era un uomo felice. Il fatto di essere sano, di avere le carni illese, era per lui una fonte di perenne, estatica esultanza; non era la passiva, quasi inconscia, soddisfazione dell'uomo che gode di una salute normale. No; Vital ogni giorno, ogni momento si compiaceva nel constatare che il suo corpo era incorrotto, il suo sangue mondo, terse le carni vigorose; e questa constatazione gli pareva quasi una vittoria sui fati, una conquista personale della sua robusta virilità.

      Passarono otto anni. Vital tornò in Francia. Aveva danari. Pensò a prender moglie. Scelse con prudenza e deliberazione. Scelse la più bella e saggia fanciulla del suo paese. E quando l'ebbe chiesta e ottenuta, se ne innamorò perdutamente, pazzamente, sentendo rinascere in sè la passione scordata o frenata durante i suoi anni di tortura. L'amò con frenesia di gratitudine e di gioia, quasi rappresentasse per lui la liberazione definitiva dall'incubo mostruoso. L'adorò con tale trasporto di riconoscenza e di beatitudine che la fanciulla stessa non lo comprendeva, e ne aveva quasi paura....

      Mancava un mese alle nozze. Era il primo d'Agosto e, dopo la giornata canicolare, Vital – che dal principio dell'estate s'era sentito un po' languido e sonnolento – scese con gli amici a fare un bagno nel fiume. Si svestì sulla sponda, parlando e scherzando; gettò giacca e sottovesti sull'erba, indi alzò le braccia per trarre da sopra al capo la camiciola di maglia.... Sostò. Guardò quelle braccia ignude alzate nella gran luce del sole....

      Stette un attimo così, immobile, senza respiro. Indi abbassò le braccia e le tese davanti a sè nella luce abbagliante di quel sole estivo. Il terrore lo fulminò.

      Sull'avambraccio destro v'era una macchia rossastra, leggermente saliente. Più su, vicino alla spalla, ve n'era un'altra. Sul braccio sinistro.... Sì! sopra la piegatura del gomito, una piccola placca rossa e granulata....

      Una nausea profonda gli chiuse la gola. Indi con un ruggito di belva si abbattè, colla fronte in terra.

·······

      Il dottor Harding ne ebbe notizia per qualche anno ancora.

      Vital errava per il mondo portando con sè la sua disperazione. Harding ne riceveva delle lettere che lo facevano rabbrividire d'orrore e di pietà.

      «Se tu sapessi che cosa vuol dire assistere con mente chiara alla propria putrefazione!… Non mi lascio vedere dai dottori per paura che mi mandino alla Lebbroseria, a Hendela.

      «Tu, tu che sei medico, studia, trova, inventa!… Per Dio! ci sarà pure un rimedio! Ancora sono nei primi stadi.... Trova! Cerca! Inventa!».

      E un anno dopo:

      «Fa presto! fa presto! Aiutami! Faccio già spavento a chi mi vede. Non ho più sopracciglia; ho dei noduli sulla fronte, sulle narici, sui lobi delle orecchie. Ho le mani difformi; le dita mi si ricurvano come artigli....».

      E più tardi ancora:

      «La cancrena mi ha fatto cadere un dito. Il morbo mi s'infiltra negli occhi; non ho più palpebre. Fa presto! In nome di Dio!… Cerca! trova! inventa....».

      E il dottor Harding studiò, cercò, inventò. Fece venire le opere di Bibb, di Koch, di Hutchinson, di Schmal; andò in cerca d'indigeni lebbrosi e fece su loro degli esperimenti, pericolosi a sè stesso e a loro; tentò inoculazioni, vaccinazioni, cure di arsenico, di mercurio, di olio di chaulmoogra.... Visse tra mostri deformi e animaleschi, studiando tubercoli e ulceri, cancrene e necrosi....

      E già da anni la terra, scura e pietosa, aveva ricoperto il volto spaventoso di Vital, che ancora il suo amico, sulle lontane coste dell'India, cercava, studiava, inventava, ossessionato dall'idea di guarirlo, fisso nel pensiero di vincere il più antico, il più atroce morbo che affligga l'umanità.

·······

      Il dottor

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