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dita sotto la tavola, le disse che era un angelo, e finì il suo pranzo in pace.

      L'indomani partirono.

      Andarono a Engelberg. Qui trovarono molto tennis e molto golf e molte ragazze in blusa bianca e cappello alla canottiera. Ragazze ridenti, ragazze arrossenti, ragazze cinguettanti – Engelberg ne rigurgitava. Nunziata ben presto ricevette una lettera dal conte, dicendo che egli pensava di venire a Engelberg… E Nino la condusse ad Interlaken.

      Ma tutta la Svizzera era infiorata di giovinezza. Pareva che tutte le donne al mondo non avessero che diciasette o diciotto anni! Nunziata diceva nervosamente mille volte al giorno:

      – Dio! che bella ragazza!

      E Nino diceva:

      – Ah, sì? Dove?

      – Ma l'hai pur vista… quella che è passata adesso.

      Nino non aveva visto.

      – Ma sì che l'hai vista, – insisteva Nunziata.

      No, Nino non aveva veduto nessuno, non vedeva mai nessuno.

      Ma Nunziata vedeva tutti. Ogni figuretta slanciata, ogni fine profilo, ogni curva di guancia fresca, le figgeva spine e scheggie nel cuore dolorante. Portava le sue vesti meravigliose e i suoi cappelli inverosimili, ma stonavano nel grandioso ed elementare paesaggio svizzero. E le fanciulle che andavano al tennis in camicetta bianca e gonna corta, passando a braccetto, gaie nella spietata luce del sole di giugno, si voltavano a guardarla, e ridevano.

      In breve Nunziata sentì che ciò che era stato un mero capriccio per lei durante quattro anni in cui aveva ancora per distrarla le sue parti e il suo pubblico, i suoi impresari e i suoi critici, i suoi adoratori e i suoi nemici – ora non era più un capriccio. La « toquade » di cui si rideva non era più una toquade. La « cotta » era divampata e s'era fatta incendio. Questa era la passione – la temuta e grande passione.

      Ora non esisteva per lei altri che Nino. Nino non era più Nino: era la giovinezza stessa, era l'amore, era la vita, era tutto quello che ella aveva posseduto nella turbolenta ricchezza del suo passato, tutto quello che tra poco le sfuggirebbe per sempre. E il suo cuore si fece amaro, come amaro è il cuore di ogni donna che ama un uomo più giovane di lei. Ella sentiva i suoi trentotto anni come una piaga vergognosa. A volte, quando egli la guardava, ella con un piccolo singhiozzo nervoso, gli copriva gli occhi colle mani.

      – Non guardarmi, non guardarmi!

      Egli allora, ridendo, le scostava la mano:

      – Ma perchè, fantastico amor mio?

      – I tuoi occhi sono i miei nemici, io ne ho terrore.

      Poichè ella ben sapeva che quegli occhi avrebbero guardato e desiderato tutta la leggiadrìa e la giovinezza che è nel mondo.

      Un giorno, sul tardi, sedevano sul loro balcone, mentre nei giardini sottostanti un'orchestra italiana suonava della musica di Sicilia, languida ed eccitante.

      Nunziata disse il suo pensiero:

      – Non sei stanco di me, Nino? Oh, Nino! sei certo di non essere ancora stanco di me?

      – Ma cosa dici? Ma tu sogni. Io non mi stancherò mai di te. Mai! te lo giuro.

      Nunziata sorrise, amara.

      – « Ils faisaient d'éternels serments… » – mormorò.

      Nino le afferrò le bianche mani inerti.

      – Perchè, non sei felice? – domandò. – Perchè?

      – Non lo so! – sospirò lei.

      – Tu soffri, tu soffri. Lo so, lo sento. Lo sento tutto il giorno, anche quando ridi. E' colpa mia? dimmelo! dimmelo! Saresti più felice senza di me?

      – Nè con te, nè senza di te, posso vivere, – citò Nunziata.

      L'orchestra suonava l'aria della « Manon » di Massenet. L'anima di Nunziata era presa dalla sete dell'inafferrabile, dalla nostalgia della morte.

      Ma era tardi, e la campana della table-d'hôte era suonata da un pezzo. Ella si alzò con un lieve sospiro. Si ravviò i capelli, si sfiorò la faccia col piumino della cipria; poi, con una piccola e muta preghiera alla Madonna, mise il braccio sotto quello di Nino e scese a pranzo.

      – Non sarò più così stolta, – disse scendendo le scale. – E' assurdo, lo so. E' una cosa morbosa.

      Ma ecco che dopo il pranzo una ragazza di Budapest venne pregata di ballare. Sulle prime, essa rise ed esitò; poi sparì per pochi istanti, durante i quali Nunziata si sentì venir male.

      La giovinetta riapparve, scalza ed avvolta in lievi drappeggiamenti. E danzò. Danzò, rosea e fine come un petalo di fiori di pesco. Pareva l'incarnazione di tutte le primavere.

      E Nunziata fu di nuovo morbosa.

      Nino era disperato. Sospirò cupamente un verso del Verlaine:

      Mourons ensemble, voulez-vous?

      La straziata amante lo guardò, poi diede una breve risatina stridula, citando il verso che seguiva;

      Oh, la folle idée!

      Ed ella non era del tutto sincera nel suo riso, – come egli non lo era stato nel suo sospiro.

      Mentre gli amanti così, quasi per celia, invocavano la Morte, – lontano, nella Casa Grigia, quella macabra Visitatrice si era avvicinata, si era tolto il velo dall'orrore del viso, ed ora batteva, batteva alla porta… Un mattino la signora Avory, svegliatasi, trovò l'ultima delle sue figlie convulsa, con le labbra intrise di sangue.

      Un dottore chiamato in gran fretta aveva suggerito: Davos! Uno specialista venuto da Londra aveva ripetuto: Davos!

      Otto giorni dopo, la casa era chiusa, la servitù licenziata. Fräulein, disciolta in lagrime, era migrata in una famiglia americana del vicinato. Valeria, pallida e triste, e la piccola Nancy, singhiozzante e aggrappata al collo di Edith, avevano detto « Addio! Addio! » ed erano partite per l'Italia con lo zio Giacomo.

      Edith e sua madre, tragiche e sole, volsero i passi verso le cime dove brilla eterna la neve e la speranza.

      XI

      Davos scintillava adamantino e terso nel sole invernale.

      Edith giaceva sulla terrazza dell'Hôtel Belvedere, con una coltre ravvolta intorno alle ginocchia e un parasole aperto sul capo.

      Era felice. Sua madre le aveva allora allora portato una lettera di Nancy.

      La piccola Nancy, che l'aspettava in Italia – (oh, non avrebbe avuto molto da aspettare! Ancora un po' di tempo, ed Edith sarebbe completamente guarita!) – le scriveva una lettera, tutta d'amore e di tenerezza, dicendole di far presto a guarire! La vita senza Edith, scriveva la bimba, era un brutto sogno; l'Italia senza Edith non era che una macchietta verde e un nome sulla carta geografica, ma in realtà non esisteva affatto! La zia Carlotta e la cugina Adele erano buone e care persone con voci forti e risate larghe – come tutti, del resto, a Milano – ma Nancy non le capiva e non le amava. Non amava che Edith. Non voleva che rivedere Edith, essere vicina a Edith! e non lasciarla più. – Ah, quasi dimenticava di dirle che aveva scritto due poesie in italiano; e sua mamma le trovava più belle di tutte le altre cose scritte prima. E addio! e arrivederci! e che Edith guarisse presto presto, per poter tornare tutti insieme in Inghilterra ed essere felici.

      V'era un affettuoso poscritto di Valeria che le diceva di essere buona e di guarir presto.

      Sì, sì! Edith sentiva che sarebbe guarita presto. Era l'ora in cui la temperatura le saliva, e il leggiero frizzore che la febbre le metteva nel sangue le dava un senso di eccitazione, quasi di fretta. Essa si sentiva vivere, intensamente, smaniosamente.

      Strinse sulle labbra la lettera della piccola Nancy, e riaffondò il capo nei cuscini.

      La sua seggiola a sdraio era la penultima di una lunga serie di seggiole identiche, tutte in fila sulla terrazza a mezzogiorno dell'Hôtel Belvedere. Da ambo i lati, Edith vedeva altre figure adagiate con coltri e parasoli, come lei. La sua

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