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un destino che corrisponda agli intimi soavi accordi dell'intelletto e del cuore?

      Oh, di certo, una nazione redenta, un popolo restituito a dignità, il sangue dei caduti vendicato coll'onore della patria raggiante nella coscienza di cittadini risorti alla serietà del dovere e alla letizia della libertà, codeste sono opere immortali.

      Ma lo spiritual significato di un'esistenza utile, laboriosa, onesta e grande come quella di Cavour non è forse anche più ragguardevole cosa e degna di rimanere in perpetuo esempio?

      Di codesta purissima luce, effusa sulla nuova storia della nostra patria, dobbiamo rendere grazie a quell'uomo, e, sia benedetta la Provvidenza, che la rivoluzione d'Italia si impersona in una delle figure più elette del secolo.

      Nè consentiamo alla puerile bestemmia che egli sia morto a tempo per la gloria sua.

      Per la sua felicità, forse.

      Ma, per la gloria? Che possiamo dirne noi? Che ne sappiamo?

      Che cosa possiamo noi prevedere di una intelligenza, di un'anima entro la quale ardeva e folgorava così potentemente il raggio di Dio?

      Un giorno, standosi il conte di Cavour sulle rive del lago di Ginevra, lo accostò un alto e biondo bernese, soldato della libera Elvezia repubblicana.

      Lo fissò, e poi gli chiese:

      – Sie sind Cavour? —

      E, avutane risposta affermativa, gli occhi del popolano si velarono di lacrime. Afferrò le mani del grande liberale, le baciò precipitosamente, commosso. Poi si allontanò.

      Si era al 1860: l'Italia sorgeva.

      Oh come felici, se nella sconsolata via, venisse innanzi a noi il trionfante fantasma ideale!

      Con quale trepidante desiderio, anche noi, interrogheremmo:

      – Sie sind Cavour? —

      L'EPOPEA GARIBALDINA

CONFERENZADIGIUSEPPE CESARE ABBA

      Tentare in una breve ora l'epopea garibaldina, che vuol dir tutto Garibaldi, sarebbe come voler cogliere in un'occhiata tutta la giogaia delle Alpi. Chi lo potrebbe e da quale altezza? Fra Rio Grande e Digione, i suoi furono trentacinque anni di guerre con intermezzi di solitudini da Nume, o sull'Oceano o sullo scoglio dov'Ei sapeva incatenarsi da sè; e solo la lirica, col suo gesto da folgore, varrebbe forse a pigliarli nella sua luce. Ma se è vero che dell'Epopea il poeta può, se vuole, coglier soltanto il nodo; allora questo nella garibaldina è la Sicilia, la Dittatura, Lui, che privato, povero, disconosciuto, dispetto o adorato, ma in sè gigante cui sono sproporzionati uomini e cose, leva via un re inutile, e fa possibile e sicura l'unità dell'Italia.

      Se lo stato dell'anima quale ce l'han fatto i secoli, per quel tanto di scienza che s'acquista via via da tutti, ci lasciasse ancora concepir l'Eroe nel senso antico, certi pochi uomini, da duemila anni in qua, meriterebbero d'esser chiamati eroi quanto Garibaldi: ma forse piace di più riconoscere in lui l'Uomo quale un giorno sarà, perchè ebbe al sommo la pietà, l'amore, l'oblio di sè, e un sentimento vivissimo del misterioso legame che ci giunge con l'Essere da cui emana tutta la legge e tutta la vita, la quale deve divenir alla fine sola bontà.

      Non lo vediamo a sette anni, mentre si trastulla con tra le mani un grillo, piangere per avere strappato le ali alla povera bestia innocente? Non offesa dunque a ciò che vive, non far patire. È già quello stesso che negli anni gravi e glorioso si leverà nel cuore della notte, per andare in cerca di una capretta che udirà belare smarrita, su pei greppi della sua Caprera. Di mezzo a questi due fatti che paiono fanciulleschi, sta l'episodio di quel barbaro americano Millan, che aveva fatto torturar lui prigioniero, e che caduto poi nelle mani sue egli rimandò libero, senza volerlo vedere. A otto anni salva una lavandaia pericolante in un fosso; e a tredici si getta in mare per soccorrere una barca di compagni già lì per naufragare. E li salva. Quando a settantacinque anni sarà morente, dirà le ultime sue parole, raccomandando ai suoi le due capinere venute a posarsi sulla sua finestra!

      Cominciò presto per lui la grande scuola di farsi da se; e presto lo vide la Costanza, il brigantino che lo portò marinaio in Levante, sogno degli italiani, passato dai libri di Marco Polo nella poesia cavalleresca. Anch'egli mirerà di Angelica ridente il velo

      Solcar come una candida nube l'estremo cielo;

      ma poi la sua Angelica la troverà in Italia, a diciassett'anni. Navigherà col padre, marina marina, sino a Fiumicino e da Fiumicino farà una corsa a Roma. Col quel po' di storia romana che ha nell'anima, passerà tra i monumenti della vecchia Roma e quei della nuova, si desterà in lui lo spirito di Cola di Rienzo, concepirà che sulle due Rome, può e deve sorgere una nuova Roma italiana. E in quell'età della vita che ogni uomo si pianta nel cuore una fede propria, in lui si pianta quella della gran madre, per cui penserà, lavorerà, combatterà fino al «Roma o morte» d'Aspromonte; fino alla tetra sera di Mentana. Il dì che Roma diverrà italiana, egli non ci sarà, ma i secoli diranno che stava a combattere per l'onore di quella Francia, che a Mentana aveva provate le armi sue nuove contro di lui. Mai uomo fu defraudato del suo diritto come lui, in quel giorno che l'onore di entrare in Roma toccava ad altri!

      Gli anni giovanili di Garibaldi paiono andati via rapidi, per chi li legge nelle sue biografie; ma come furono densi di azione! E il nostro pensiero lo segue ancora su' mari di Oriente dove navigando coi Sansimoniani proscritti, si nutre del Cristianesimo nuovo ch'essi portano per il mondo. Un anno appresso, a Taganrok (1833), un asceta del patriottismo gli rivelerà la Giovane Italia e la formola Dio e Popolo lo conquiderà. Da allora, Garibaldi sarà il Paolo di quella fede.

      Passiamo via rapidi su quel momento della sua vita in cui egli entrò nella marineria del Re di Sardegna con propositi di ribelle. Ma chi gli diede in quel momento il nome di guerra di Cleombroto, lo dava a caso, o ravvisava in lui qualcosa del giovane che letto il Fedone di Platone si uccise per accertarsi dell'immortalità dell'anima, o qualcosa del re Spartano di quel nome, morto alla battaglia di Cintra? O forse quel nome gli fu dato per quel senso di procella che par esprimere?

      Il pensiero di Garibaldi non era stato bello, ma sublime fu la pena che si inflisse da sè. Nell'ora di agire, di gridar la rivolta sulla nave del Re, la sua natura nobilissima gli diede il raggio che salva: egli scese a terra, andò a cercar altrove per Genova il luogo da spendervi la vita o conquistare la libertà; andò e cercò invano… la rivoluzione promessa era ancora un sogno. Ebbene, se tutto è finito in nulla, egli si riconferma nella sua fede, se la porta via nel cuore, anderà a fecondar l'idea pel mondo. E allora comincia l'Eroe. Curioso fatto! Egli, come gli Eroi dei poemi cavallereschi, inizia la storia delle sue imprese scorrucciato col suo Re, anzi in nome del suo Re condannato contumace a morte, come bandito di primo catalogo: e queste son parole della sentenza.

      Infermiere dei colerosi negli Ospedali di Marsiglia, quando non ci è da far quel bene, s'imbarca per l'America, e là sarà l'eroe byronesco, Lara, Corrado, Leandro o quasi Mazeppa, quello che si vorrà. Oh! quando combatte per Rio grande, e quando vinto attraversa per nove giorni la foresta dell'Antas, fra temporali che la schiantano a colpi di fulmine! Cavalcava al fianco della sua donna, portando in un panno al collo il loro primo figlioletto di tre mesi; e questa ci pare una scena di cui si potrebbe leggere nella Bibbia. E di tratti biblici ne ha parecchi. A San Gabriele, al passo di un torrente, vede un uomo che sta facendo asciugare al sole i propri panni. «Tu sei Anzani!» grida egli a quell'uomo, «E tu Garibaldi!» risponde l'altro. S'erano per fama invaghiti l'uno dell'altro; ora saranno uniti per la vita e per la morte. Eccoli sulla via della grandezza. Montevideo ha bisogno di braccia. Vanno. Garibaldi è guerriero da terra e guerriero da mare. Dove lo mandano? Dovrà risalire il Paranà, con quei gusci che la Repubblica gli può dare; ed egli va, s'incontra con la squadra nemica, passa, naviga su pel fiume due mesi, e sotto il cannone ogni giorno; all'ultimo a Nueva Cava, dopo aver combattuto tre notti e tre giorni farà saltar le sue navi, ma il nemico non potrà dire di averlo vinto. Oh! perchè ventiquattr'anni di poi, ammiraglio a Lissa non fu lui?

      Poi divenne guerriero di terra e creò la Legione. Romano d'anima non poteva chiamarla che così. Intanto gli anni incalzavano, veniva il 1846, e nel crepuscolo mattutino di quell'anno nel cui meriggio Pio nono doveva benedire l'Italia, là nell'America

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