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i lombardi regalavano all'esercito sardo di Crimea la statua dell'alfiere in atto di difendere lo stendardo.

      Le rivendicazioni italiche erano una realtà. Cavour le aveva elevate al posto d'onore, mentre coglieva il segreto di Napoleone III.

      Il ritorno di Cavour da Parigi segna il principio di un'epica fase, e il linguaggio di lui ne risente.

      Questo ministro tecnico, che appariva sdegnoso di uscire dal terreno pratico, diventa un poeta.

      La sua eloquenza ha gli scatti e le pompe, l'ampiezza e la grandiosità: egli cita Byron e Manzoni, schiude innanzi al parlamento attonito un orizzonte sconfinato e corrusco di attività provocatrici. Le sue parole hanno la sonorità del metallo: rimbombano come fanfara di guerra.

      Orgoglioso, quando passa l'imponente rassegna degli scambi avvivati, delle industrie sollevate, delle leggi immaginate, delle Alpi tentate, delle strade aperte, della marina rinnovata, dei civili ordini assodati, coll'imponente e largo discorso dell'aprile 1857, da codesto orgoglio trae nobile argomento per additare le vie che si aprono, gli ardimenti che aspettano: le fortificazioni di Alessandria, il porto di Spezia, l'esercito, l'armata.

      E quando, l'anno di poi, l'attentato di Orsini getta lo scompiglio e incoraggia la reazione, egli, inesorabile accusatore, denuncia la complicità del misfatto nel mal governo dei principi, nelle perfidie austriache.

      Lo sgomento di tutti si infranse contro la sua virile fermezza. L'Europa stava spiando. Sarà Alberoni o Richelieu? Ma il 10 gennaio del '59 Napoleone III getta la sfida all'Austria; alcuni giorni dopo, Vittorio Emanuele non è insensibile al grido di dolore dell'Italia.

      Palestro, Montebello, Magenta, San Martino e Solferino! Giornate primaverili del nostro riscatto, corona di valore e di sangue a quegli accordi di Plombières che Cavour annodava, intanto che vanamente la diplomazia lo sorvegliava!

      La guerra del 1859, colla liberazione della Lombardia determinò la sollevazione della Toscana, dei Ducati e della Romagna; e, allorchè Napoleone III, preoccupato dal contegno della Prussia risolse di posar l'armi, stipulando i preliminari di Villafranca, mezza Italia aveva proclamato la indipendenza.

      L'insurrezione prodigiosa era stata sollecitata dall'iniziativa guerriera del Piemonte: Cavour l'aveva ispirata: egli sentiva la responsabilità formidabile.

      Il grande rivoluzionario era lui, che aveva bandito la guerra, scatenato le popolazioni, armato Garibaldi, che sosteneva di denaro e di consigli Farini nell'Emilia, d'Azeglio in Romagna, corrispondeva con Ricasoli in Toscana. Villafranca lo colpì come una defezione. Fu il dolore grande della sua vita, gli parve d'aver mentito ai popoli fidanti in lui. L'esaltazione tragica del suo animo salì all'irreverenza verso i sovrani; quel potente dubitò di sè: vide nell'opera sua una ruina.

      Il popolo d'Italia fu, in quei giorni più sereno e tenace di lui, ma lo intese. Disse: è un uomo di cuore costui, e veramente ci ama. Lo vendicò. D'altronde, Napoleone III che aveva sacrificato al dovere verso la Francia la promessa: «dall'Alpi all'Adriatico» si tenne fedele allo spirito del trattato di Parigi.

      Se Villafranca significava la pace coll'Austria, egli aveva dichiarato che non intendeva di frapporsi fra il popolo e le sue aspirazioni. Quando Gioacchino Pepoli fu spedito a Parigi per annunziare i propositi degli Italiani e già i governi provvisorii delle provincie centrali, irremovibili nell'indipendenza, meditavano l'unità coi plebisciti, l'Imperatore movendogli concitato incontro:

      – Sur quel air venez-vous? – chiese.

      – Sur l'air de Villafranca, Sire, rispose Pepoli prontamente. E di rimando:

      – Il n'y aura pas d'intervention, – dichiarò recisamente Napoleone.2

      Il non intervento condannò l'Austria alla immobilità, favorì la politica delle annessioni. L'opera di Cavour ne usciva intatta, e questi, che nell'impeto del patriottico sdegno, aveva abbandonato il governo, vi ritornò il 16 gennaio 1860.

      Era forse giunto il tempo che dovessero avverarsi tutte le profezie? Che anche la parola di Carlo Alberto trionfasse? Suonava per l'Italia l'ora di fare da sè?

      Ahimè! Diciotto mesi ancora, e poi il risorgente popolo è percosso dalla negra ala della morte.

      «Una congestione cerebrale,» scrive il venerando patriotta ungherese Luigi Kossuth «e la mente che oggi s'innalza co' suoi progetti fino al cielo, la mano che arditamente spinge la ruota della fortuna delle nazioni, domani è un corpo esanime che ridona alla terra ciò che di terrestre conteneva.»

      Ma in quei diciotto mesi quale maestosa onda di fatti!

      L'epopea dei volontari, l'ardita marcia a traverso l'Umbria e le Marche e Vittorio Emanuele che stringe la mano a Garibaldi sul Volturno, intanto che i plebisciti creano il regno d'Italia e il primo parlamento italiano acclama Cavour, che si mostra al braccio di Alessandro Manzoni!

      Questo è miracolo voluto, combinato, eseguito con una perspicacia che sorveglia sè stessa acutamente, con un'attività pensata a un tempo e turbinosa, fucinata sul maglio di un'energia indomabile, in una terribile tensione dello spirito.

      – Oh! – sclamerebbe la forte e dolce Nennele, la simpatica eroina, la nuova creazione di Giuseppe Giacosa – oh veramente colui si dava alle cose!3

      Per tal modo, il giovanile prorompere dell'ufficialetto di Bard, imprimendosi nella maestà della storia, coronava la vulcanica esistenza, dominata da un pensiero!

      Cavour era ministro del regno d'Italia! E nei clamori della prima festa nazionale, in onore di quello Statuto, che era stato per la sua volontà un miracoloso talismano, nella letizia dei compiacimenti ufficiali che dall'Europa venivano al nuovo regno, si dileguava nell'eternità gloriosa l'infaticabile spirito nel quale il sospiro dei secoli aveva assunto robusta e vitale forma.

      Temperamento fatto di logica e di libertà. Spaziò in un campo intellettuale supremo, dove non setta, non pregiudizio, non volgarità di onori, ma solamente la fatidica progressione della storia lo guidava. E questa lo condusse al premio ineffabile, e dona alla memoria di lui, rompendo l'ombra e rischiarandola, la serena popolarità che circondò la sua persona.

      Ma egli maturava nell'ampio e profondo cervello immensi e benefici disegni!

      Avete udito, sul letto di morte, le ultime sue parole?

      – Frate, frate, – e appuntava su padre Giacomo il fuoco supremo dei suoi occhi spalancati: – libera Chiesa, in libero Stato.

      Egli poteva darci una salutare riforma religiosa!

      Fino dalla gioventù, la preoccupazione delle forze morali che sorreggono le comunioni umane aveva sollevato il suo animo alla vertigine delle altezze, il sublime lo tentava nel magnifico miraggio: la religione e la libertà!

      La sua formula, incompresa o trascurata, racchiude forse il segreto di una risurrezione di fede, quale non videro le mistiche età, di una spiritualizzazione del sentimento religioso, quale non sanno concepire coloro che abbassano la Chiesa al livello di una Società politica.

      – Santo Padre! – esclamava in cospetto dei nuovi eletti d'Italia, il conte di Cavour – Santo Padre, noi vi daremo la libertà, che da tre secoli invano chiedete alle potenze cattoliche; date a noi Roma la madre alma, la stella polare nostra: noi proclameremo la libertà della Chiesa! —

      Era una promessa degna della mente politica più vasta e comprensiva dell'età nostra, della mente che rispecchia l'immagine più schietta e completa, più morale del mondo moderno!

      Pochi, pochi anni, troppo pochi anni durò quella fioritura vivida e generosa di colore, di luce; durò quel governo intellettuale contesto di persuasione e di fàscino.

      Ma la forza di una dominazione fondata sulla vivace parola, sul dibattito aperto, in parlamento, azione di avveduta pazienza e di indomabile fede. non è mirabile, stupenda, misteriosamente seduttrice, efficace e illustre assai più di quella che si suole richiedere agli eserciti ed alle burocrazie?

      Il significato morale dell'opera di Cavour, equilibrata, sana, condotta secondo ragione, non è qualche cosa di molto elevato, di

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<p>2</p>

Aneddoto raccontatomi dall'illustre presidente della Camera italiana: Giuseppe Biancheri.

<p>3</p>

Come le foglie. Atto III.