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La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte I. Various
Читать онлайн.Название La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte I
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Автор произведения Various
Жанр Прочая образовательная литература
Издательство Public Domain
quasi obliando la corporea salma
l'abbandono in Dio di chi non ha più altra speranza quaggiù. È del Giusti quella sublime espressione de' suoi ardimenti e sgomenti d'artista:
Sdegnoso dell'error, d'error macchiato,
or mi sento co' pochi alto levato,
ora giù caddi e vaneggiai col volgo!
E anch'io quell'ardua imagine dell'arte,
che al genio è donna, e figlia è di natura,
e in parte ha forma della madre, e in parte
di più alto esemplar rende figura;
come l'amante che non si diparte
da quella che d'amor più l'assicura,
vagheggio, inteso a migliorar me stesso,
e d'innovarmi nel pudico amplesso
la trepida speranza ancor mi dura.
Sono del Giusti, o Signore, di questo poeta degli Scherzi, i versi più belli forse ne' quali abbia mai parlato la madre al figliuolo:
Goder d'ogni mio bene
d'ogni mia contentezza il ciel ti dia;
io della vita nella dubbia via
il peso porterò delle tue pene.
Oh se per nuovo obietto
un dì t'affanna giovenil desìo,
ti risovvenga del materno affetto!
nessun mai t'amerà dell'amor mio.
E tu nel tuo dolor solo e pensoso
ricercherai la madre, e in quelle braccia
nasconderai la faccia;
nel sen che mai non cangia avrai riposo.
Di cotesta vena, che in quelli ed in altri suoi versi si effonde, talvolta, se volete, con un certo languore lamartiniano, ma altresì con una delicatezza d'imagini e soavità di concetti e nitidezza di frase, che li sollevano di gran tratto dalla comune maniera di certo romanticismo morboso; di cotesta, che è poi soprattutto vena d'affetto gentile; non c'è quasi poesia delle sue satiriche che non ve ne trapeli qualche stilla: in alcune poi, come nel Sant'Ambrogio, l'affetto è la nota dominante. Ben a dritto si sentiva egli lieto d'avere «di carità nell'onde temprato l'ardito ingegno, e tratto dallo sdegno il mesto riso.»
E più che io ripenso a tuttociò, e come questo sia uno dei distintivi nobilissimi della sua poesia, meno mi capacito, anche solamente per questo, come «scrittore di piccola mente» potesse (dispiace ricordarlo) potesse parere Giuseppe Giusti a Niccolò Tommasèo. E si avverta che il Tommasèo stesso, scrivendo al Capponi, riconobbe «elaborate e maestrevoli» le poesie del Giusti, vide in quel lavorío i «belli e svelti panneggiamenti dell'arte»; contuttociò, gli parve che negli sdegni e sogghigni «del poeta, il cuore non parlasse». E pregò il Capponi ad ammonirnelo: ma il Capponi, come vedemmo, d'altro sì l'ammonì, ma non di questo. Nè so invero chi possa, pur reverente all'autorità del Tommasèo, consentire con lui in cotesti giudizi. Poteva il Tommasèo trovare difetti, magari più difetti che virtù, nelle poesie del Giusti; la stessa sorte ebbero, presso l'austero critico, il Foscolo e il Leopardi: potevano offenderlo certe, come egli disse, «celie profane», e metteva fra queste anche il combinarsi alcune bizzarrie metriche, che al Giusti avean fatto comodo, con l'innodia popolare della Chiesa. Ma «scrittori di piccola mente» e senza espansione di cuore, erano rimasti gli altri satirici toscani, dai quali il Giusti si staccò, come vedemmo, e si sollevò: in lui, anche sottoposto a giudizio, non che severo, acre, è debito riconoscere altezza di mente, finezza d'arte, potenza di sentimento; e fra i restitutori della italianità, nel secolo che doveva finalmente veder rivendicata l'indipendenza e l'unità d'Italia, segnare con sicura mano il suo nome. Non faremo che sottoscrivere una sentenza di Alessandro Manzoni.
Il nome suo di poeta. Come prosatore, è minore d'assai; e francamente può dirsi che nelle sue prose, troppo spesso prevalga la maniera all'ispirazione. Le hanno esaltate oltre il dovere quei teorici della lingua parlata che dicevo poco fa. Stando ai loro criteri, si sarebbe dovuto scriver tutti a quel modo, e concluderne che solamente dopo sei secoli la lingua nostra avesse sciolto lo scilinguagnolo. Era un po' forte ad ammettersi; e quel vampo scolastico ha cominciato da un pezzo a dar giù. Io credo che il Giusti non avrebbe ambite lodi consimili, e che sopra teorie di tal fatta ci avrebbe architettato volentieri uno di que' suoi scherzi, coi quali ironeggiò sopra altre utopie non più fondate di questa. Del resto, la prosa sua la martellava, e come! Tormentava persino le lettere che scriveva agli amici; e il suo Epistolario, anche quando il Martini e il Biagi ce lo avranno dato genuino ed intero, seguiterà a farne testimonianza, anzi più espressa e sensibile. Quei difetti che abbiamo sentito il Capponi rilevargli, e che egli riconosceva, nella prosa stridono anche di più: perchè sono difetti (come il Capponi dice) di squisitezza; e la poesia, anche la familiare e satirica, consente alquanto più, che non la prosa, la ricerca del non comune, nel che appunto sta (come il vocabolo stesso significa) la squisitezza. Non è qui il caso nè il luogo: ma se volessimo esemplificare, sia dalla prosa sia anche dai versi, si farebbe capo le più volte ad abusi di locuzione figurata, con elementi non sempre coerenti fra sè e col soggetto, qualche altra volta a frasi e costrutti un po' sforzati; come pure non è lodevole certo scintillío di concetti continuato, che finisce con l'ingenerare stanchezza e monotonia. Tuttavia il Camerini, che fa anch'esso' quest'appunto della squisitezza, ha altresì queste parole: «Ma quella lettera a Drea Francioni dalle montagne pistoiesi, che finisce con la mirabile dipintura del ballo villereccio in casa del notaro, è bella come le sue più belle poesie.» E dice bene.
Nè per ultimo possiamo, anzi non dobbiamo, dimenticare ch'egli morì a quarant'anni. Morì col presentimento che la sua poesia fosse finita con lui, ed augurando che fosse. «Sento» scriveva nel '47, ma però nell'atto di raccogliere i suoi versi, «Sento che questo modo di poesia comincia a essere un frutto fuori di stagione, e vorrei elevarmi all'altezza delle cose nuove che si svolgono dinanzi ai nostri occhi con tanta maestà d'andamento… Se mi darà l'animo di poterlo tentare, certo non me ne starò: se poi non mi sentissi da tanto, non avrò la caponeria d'ostinarmi a sonare a morto in un tempo che tutti suonano a battesimo». E nel '48, preparando un'altra edizione, che doveva pur troppo uscir postuma nel '52 per cura del Capponi e del Tabarrini: «Perchè dovrei ostinarmi a straziare chi s'è corretto, se io appunto non desiderava altro che tutti ci correggessimo? E vero che agli errori e ai vizi di tempo fa, sono succeduti i vizi e gli errori delle cose recenti: ma io, lieto di vedere aperta la via del bene, non ho più cuore di menare attorno la frusta; e col mio paese ringiovinito, ritorno anch'io ai sogni sereni e alla fede benigna della primissima adolescenza. E questa fede posso dire non essersi spenta mai nell'animo mio; e il non aver derisa la virtù, e la stessa mestizia del verso sdegnoso, spero che valga a farmene larghissima testimonianza». Erano i giorni de' quali l'amico Panzacchi ha evocato qui, o Signore, dinanzi a Voi la giovinezza e la poesia; e in quei giorni appunto, il Giusti con parole di cittadino e d'artista, degni l'uno dell'altro, aggiungeva: «Ora che il popolo, eterno poeta, ci svolge dinanzi la sua maravigliosa epopea, noi miseri accozzatori di strofe, bisogna guardare e stupire, astenendoci religiosamente d'immischiarci oltre nei solenni parlari di casa. L'inno della vita nuova si accoglie di già nel vostro petto animoso, o giovani, che accorrete nei campi Lombardi a dare il sangue per questa terra diletta: ed io ne sento il preludio e ne bevo le note con tacita compiacenza. Toccò a noi il misero ufficio di sterpare la via; tocca a voi quello di piantarvi i lauri