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che le rape un dì fruttaro a voi;

      in casa vostra, o trecentisti eroi,

      comandan gli osti.

      E strugger poi, crocifero babbeo…

      Al qual punto il malcapitato padron di casa interrompe, col pretesto del caffè; e il poeta ci regala la parte rimastagli in tal modo fra il bicchierino e la chicchera:

      E strugger puoi, crocifero babbeo,

      l'asse paterno sul paterno foco,

      per poi, briaco, preferire il cuoco

      a Galileo;

      e bestemmiar sull'arti, e di Mercato

      maledicendo il Porco, e chi lo fece,

      desiderar che ve ne fosse invece

      uno salato?

      Oh beato colui che si ricrea

      col fiasco paesano e col galletto!

      senza debiti andrà nel cataletto,

      senza livrea.

      Programma, com'oggi dicesi, del suo poetare; in contrapposto, annotava egli stesso, alle «brutte facezie, che hanno avuto voga per tanto tempo, lusingando l'ozio e la scempiataggine».

      E nella «Origine degli scherzi», altra saffica che ben a ragione è stata chiamata la sua «Arte poetica», dice come, dopo avere da giovine «sbagliato se stesso» e «pagato al Petrarca il noviziato», la coscienza aveva rettificata la sua vocazione, e di mezzo alle due scuole d'allora de' Classici e de' Romantici aveva fatto balzar fuori la satira sua paesana, «nel suo volgare, col suo vestito», satira nutrita d'amarezza e di sdegno, «riso che non passa alla midolla», come quello del saltimbanco,

      che muor di fame, e in vista ilare e franco

      trattien la folla.

      E «a uno scrittor di satire in gala»

      Vedi piuttosto

      diceva

      di chiamare al banco

      i vizi del tuo popolo in toscano,

      di chiamar nero il nero e bianco il bianco,

      e di pigliare arditamente in mano

      il dizionario che ti suona in bocca,

      che, se non altro, è schietto e paesano.

      Sul qual proposito, però, è bene intendersi; e mi parrebbe ormai l'ora, prima che s'esca dal secolo che fra poco a chiamar nostro rimarremo soli noi vecchi. È stata una superba malinconia de' signori ottocentisti (consegnamoci senz'altro alla storia), una malinconia superba o piuttosto una iattanza vana, questa: che solamente a' dì nostri la letteratura italiana si sia giovata della lingua viva o, come è di moda dire, parlata; e ciò specialmente a rovescio e in onta di quel gran signore che fu il Cinquecento, il quale, a sentir cotesti scriventi loro soli la lingua parlata, non fu che uno sfarzoso accozzatore di locuzioni boccaccevoli, di emistichii petrarcheschi, di periodi ciceroniani. La verità vera è invece, che ciascun secolo ha scritto la lingua che parlava, finchè e nello scrivere e nel parlare non è entrata, con la servitù politica e, peggio con la intellettuale e morale, la corruzione anche dell'idioma; il che fu solamente dopo passato il Secento: e che se a' nostri giorni, col rivendicare il diritto e lo stato politico di nazione, ce ne siamo altresì venuto rifacendo, il meglio che si poteva, il carattere; se per la restaurazione di questo nella lingua, si è voluto e saputo, dopo la regressione al nazionale antico operata artificialmente ma non senza utilità dai puristi, volgerci al nazionale vivente interrogando il popolo, e cioè il popolo di quella fra le regioni nostre che sola non abbia dialetto; tutto cotesto non vuol dire, come per certuni parrebbe, che la letteratura italiana incominci da quando si è racquistato il sentimento italico della toscanità; da quando l'unità della lingua in Firenze, non più astrazione litigiosa fra uomini di lettere dal Bembo al Monti, è divenuta una cosa dimostrata col fatto, meglio che con le teorie, dall'Autore dei Promessi Sposi; nè che il Giusti (per tornare al nostro argomento) sia quello fra i poeti che abbia, lui per primo, dato l'esempio del «pigliare arditamente in mano il dizionario che ci suona in bocca»: lui che, del resto, in una delle sue prefazioni, definì la propria «un genere di poesia che può avvantaggiarsi di tutta la lingua scritta e di tutta la lingua parlata».

      Sarebbe non breve discorso, e trattazione d'un argomento a sè, il mostrarvi come cotesto dizionario si è saputo maneggiar sempre e da tutti, grandi e piccini, anche nel prevalere di questo o quello stile (perchè altro è lingua, altro è stile) fatti invalere fra gli scrittori dall'autorità preponderante di questo o quello fra i nostri solenni maestri, e specialmente nel Cinquecento dal Boccaccio e dal Petrarca. Mi contenterò (e non voglio entrare nella prosa, solamente perchè vi parlo di poesia) mi contenterò di due soli esempi: e uno sia nientemeno che Dante. Non per la Commedia: la quale pure sappiamo oramai quanto grande portato ella sia, propriamente del volgar fiorentino del Due e Trecento (e le postille del Giusti al divino Poema mostrano com'egli ne sentisse tutta l'attualità, di contenuto e di forma); non pel Poema, dico, ma invece per certi Sonetti che Dante scrisse poco dopo il 1290, e che da quanto erano, diciamolo pure, piazzaioli, non si volevano nemmeno riconoscere per suoi; ma che pur troppo sono e suoi e del suo parente Forese Donati (colui che poi mandò, al Purgatorio fra i ghiotti), col quale fanno a dirsele a botta e risposta con quello zelo che in simili casi la parentela suole ispirare. Or bene, chi raffronti i documenti poetici di cotesta Tenzone di giovinastri con un certo Saggio di lingua parlata del Trecento cavato dai Libri criminali di Lucca da un ingegnoso erudito vivente, vedrà che il dizionario «schietto e paesano» del Giusti il divino Poeta lo sfoglia, pe' suoi tempi, con abbastanza modernità. L'altro esempio è di messer Angelo Poliziano, il poeta dell'Orfeo e della Giostra, il principe degli umanisti nel Rinascimento, che però fu anche il gaio rimatore delle Canzoni a ballo e dei Rispetti. Ora io vorrei potervi leggere un paio solamente di quelle vispe e succinte e ogni tanto sboccate poesiole, e ne sceglierei due che si potrebbero intitolare, l'una Il segreto d'amore e la confessione, e l'altra Il galletto, la chiocciola e la nave in porto; e poi vorrei dimandarvi, se il Giusti, che nella sua piuttosto scarsa erudizione è presumibile non le abbia mai lette, avrebbe potuto ricusare all'eruditissimo fra i poeti la lode, che esso il Giusti, in quella sua Arte poetica degli Scherzi, si arrogava a buon diritto, di non avere «svisato i propri concetti» per l'ambizione di «tradurre sè stesso». Vi assicuro che le gentildonne fiorentine, leggendo a diletto in questo palazzo mediceo le strofette incantevoli del Poliziano, non avranno avuto alcun bisogno di ritradurre.

      Più altri esempi ci offrirebbero e la poesia burlesca e la comica del Cinquecento, e nell'età di decadenza que' tali poeti con cui vedemmo che il Giusti per le qualità sue esteriori si ricongiunge. Il Fagiuoli, in quel suo interminabile profluvio di Capitoli slombati, ha qua e là, a sprazzi, dei quadretti di genere, dove la lingua fiorentinissima (e ben poco ci corre da quella d'oggi) colorisce graziosamente que' suoi fantoccini dal vero. E il Saccenti, dipingendo, pur dal vero, la vita di provincia degli ultimi tempi medicei; e il Pananti, la girovaga del Poeta di Teatro ne' primi decennii del secolo; e il Guadagnoli, la Toscanina patriarcale dell'ultimo Lorenese, e il tran tran di quel mondo che, secondo la comoda teoria del ministro Fossombroni, andava da sè; non vengon meno, nè il Saccenti nè il Pananti nè il Guadagnoli, – mentre il buon marchese Angiolo d'Elci seguitava tranquillamente a scrivere le sue Satire in classico stile – non vengon meno davvero al dizionario che sonava in bocca dei loro valdarnesi e mugellani, e dei fedeli abbonati d'anno in anno al prezioso lunario di Sesto Caio Baccelli. Diciamo altresì che certi dialoghetti del Sesto Caio (il Baccelli infreddato, per esempio, o il Baccelli zoppo, o dello stesso Guadagnoli il bozzetto villereccio di Gosto e Mea), certe scenette pur dialogate del Pananti (quelle con lo zio prete, i battibecchi dei commedianti fra loro e col poeta), se non raggiungono l'efficacia drammatica che il Giusti infonde in quei bozzetti mirabili delle Istruzioni a un emissario, della Spia dopo le riforme, dei dopopranzo di Taddeo e Veneranda, delle disperazioni della moglie di Maso nel Sortilegio, son tuttavia derivazioni dalla medesima fonte che il Giusti è poi parso aver egli disuggellata.

      Se

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