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guardie, e aveva finito col dire: orbene, poichè vi piace tanto la mia compagnia, vengo con voi.

      Ed ecco per che modo il nostro Michele, in vece di andare a casa, era andato a Sant'Andrea, del quale non era punto divoto.

      La mattina seguente, il prigioniero era stato interrogato dal giudice. Avendo imparato a sue spese, nella notte, a tener la lingua a segno, rispose modestamente esser egli Michele Garaventa, servitore del signor Salvani, che se ne andava tranquillamente a casa, dopo averne bevuto un bicchiere, non intendendo nulla di tutto quel subbuglio di __uomini d'arme__.

      Il nome del Salvani non parve facesse alcuna impressione sul giudice. Le autorità di palazzo Ducale, colte alla sprovveduta in quei giorni, con tanta roba sulle braccia, molta se ne lasciavano cadere a terra, senza pensare neanco a raccattarla. D'altra parte il nome del Salvani, conosciuto per quel che valeva al comando militare, ma salvato dal più grave pericolo mercè l'amichevole sollecitudine del capitano Nelli di Rovereto, non era ancora, quella mattina, sulla lista del potere civile, e non poteva, per conseguenza, esser noto al potere giudiziario, il quale non aveva tra mani più di una trentina di popolani, arrestati la più parte a caso, e tutti intesi a dichiarare che non sapevano nulla.

      Tornando a Michele, egli non era uomo da destar sospetto nell'anima timorata del giudice istruttore, il quale s'impuntò solamente, e più per consuetudine d'ufficio che non per altra ragione, a chiedergli il perchè avesse risposto «non lo so» alla domanda delle guardie.

      – Mi hanno colto all'impensata; – rispose Michele senza turbarsi; – avevo anche un po' bevuto, come ho già detto a Vostra Eccellenza… Ella sa bene… il vino impedisce lo __sviluppo delle sillabe__… E poi, – proseguì egli, vedendo le labbra del giudice incresparsi, per trattenere il sorriso, – lo sapeva io, dove andassi? Non potevo mica sapere che mi avrebbero portato in catorbia! —

      Qui il magistrato aveva riso a dirittura, e, la sera di quel giorno medesimo, il nostro Michele era posto in libertà. Corso a casa, aveva trovato faccia di legno, come il Montalto, il Pietrasanta e l'Assereto; però, dopo essere stato un pezzo a grattarsi la pera, aveva deliberato di andare da quest'ultimo, per chiedergli se sapesse nulla de' suoi amati padroni.

      L'Assereto gli aveva narrato a sua volta tutto quel che sapeva di casa Salvani. Non gli era molto, per verità. Ma la sparizione della fanciulla, tanto più notevole in quanto che pareva essere spontanea, messa a riscontro colla perquisizione, chiarita apocrifa, nella camera del signor Lorenzo, fece gridar Michele e strapparsi i capegli come un dannato.

      – Sì certo! – andava egli borbottando negli intermezzi delle sue furie. – Erano venuti soltanto per la cassettina d'ebano, quei carabinieri di nuovo conio. Ah maledetta lingua!.. —

      E alle ripetute domande dell'Assereto che instava presso di lui per avere la spiegazione di quelle parole, il povero servitore aveva risposto un nome, quello del Bello, che era stato il suo Pilade, e poteva dirsi con più ragione il suo Giuda. Ma non sarebbe andato impunito, o non avrebbe avuto il tempo d'impiccarsi da sè, come l'apostolo del fico; perchè egli, Michele, com'era vero Iddio, l'aveva a freddare colle sue mani.

      L'Assereto, che aveva durato molta fatica a cavargli i suoi sospetti di bocca, così furente com'era, ne durò un'altra grandissima a chetarlo. Finalmente (così narrava agli amici) gli aveva ingiunto, per l'amore dei suoi padroni, di non muoversi di casa, fino al suo ritorno, aspettando che egli avesse trovato il modo di porsi sulle tracce della signorina Maria. Questo era l'essenziale; quanto alla vendetta, sarebbe venuta poi; che intanto la era, giusta il proverbio de' Côrsi, una vivanda da mangiarsi fredda.

      Il racconto dell'Assereto fu ascoltato dagli amici Templarii con una attenzione che mai la maggiore. E invero, quel tenebroso sviluppo di casi, quella filatessa di malanni che s'era andata svolgendo così assiduamente nel breve giro di pochi mesi, e seguendo la legge del __motus in fine velocior__ su quella giovine coppia fraterna, appariva tale da far pensare non poco, e da far credere che una possanza occulta avesse vigilato l'intrigo, condotto lo svolgimento del dramma.

      Chi volle andare al fondo di quella evidente macchinazione fu il giornalista Giuliani, avvezzo per lunga e non lieta consuetudine del suo ufficio, a scrutare i cuori e le reni, per ogni atto degli uomini a metter sempre il naso nelle quinte, sul teatro della vita. Se Adamo fosse stato giornalista, scommettiamo che non avrebbe mangiato così alla leggiera il pomo della scienza, vogliam dire senza levargli la buccia, e senza investigarne la polpa, giù giù, fino alle cellette del torsolo. Epperò il Giuliani, mentre gli amici rimanevano come trasognati, fu sollecito a cogliere il primo appiglio, per tentare il suo lavoro a ritroso.

      – Il Bello, hai detto? Chi è costui? Sarebbe per avventura un certo Garasso?

      – Sì, il servitore del Salvani me lo ha indicato anche con questo nome. Lo conosci tu?

      – Lo conosco. Molta gente conosco io, e di __diversa mena__, come ha scritto Dante, pigliando il vocabolo da noi Genovesi. Amici, – proseguì il Giuliani, voltandosi con piglio solenne ai Templarii, – qui certamente occorre di far qualche cosa; l'Assereto non ci avrà, spero, raccontata la sua storia per nulla.

      – Sicuro; ma che fare? – dissero gli altri.

      – Non lo so ancora, ma fare bisogna. Andiamo innanzi; troveremo, strada facendo. Conoscete il metodo induttivo?

      – Filosofia! – esclamò il Lorenzini.

      – Sia pure; l'ha trovato la filosofia, ma è buono dappertutto, come il prezzemolo. Chi lo ha tolto dal limbo, dove lo avevano cacciato i dogmatici, non fu propriamente un filosofo, sibbene un gran pittore, il quale s'intendeva di moltissime cose, Leonardo da Vinci. Un altro, astronomo e filosofo, Galileo, gli diede forma scientifica; un altro ancora, che fu un po' di tutto, anche un tristo, Bacone da Verulamio, ne foggiò una fiaccola, e la portò a rischiarare tutte le ottenebrate sorgenti dello scibile; noi, Templarii, secondo il nostro bisogno, facciamone un'arma di combattimento.

      – Parli come il Boccadoro; vediamo il tuo metodo alla prova.

      – Eccolo. Mettiamo le fondamenta. Perchè questa guerra al Salvani? Che nemici ha egli, giovine, modesto, quasi oscuro, come è? Lo sai tu, Assereto?

      – Credo non ne abbia alcuno, salvo il Collini, che lo tirò dapprima in quel suo garbuglio che sapete, e poi, quando egli se ne cavò valorosamente colle sue mani, gliene volle un mal di morte.

      – Il Collini! Non mi basta; – sentenziò il Giuliani. – Costui è un ambizioso; ma non è, non può essere altri che uno stromento in mano di più ragguardevoli bricconi.

      – D'altri non so, e non credo; – proseguì l'Assereto. – Il mio amico Lorenzo se ne è vissuto sempre ne' suoi panni, lontano da ogni briga…

      – No, no, il Salvani non c'entra, o c'entra soltanto di sbieco. Qui bisogna tener d'occhio il segreto domestico, la nascita della sua sorella adottiva. Non vedete come tutto è riuscito ad un fine? La perquisizione architettata da questo ignoto avversario, non mira ad altro che ad agguantare la cassettina d'ebano. Dopo la perquisizione, viene il tiro alla ragazza. A proposito, come nasce ella?

      – Il segreto era appunto nella cassettina, e Lorenzo ne aveva accennato nella sua lettera al marchese di Montalto.

      – Perchè al marchese di Montalto?

      – Perchè la fanciulla verrebbe ad essergli congiunta di sangue, come figlia ad un zio paterno del signor Aloise, che è morto in esilio, or fanno dodici anni.

      – E la madre?

      – Non lo so; Lorenzo ne ha letto il nome in un carteggio che era chiuso nella cassettina, ma non ne ha detto nulla a me, nè al signor Aloise.

      – Bisognerà vederlo, e saper questo nome.

      – Sicuro, e questo è anche il disegno del marchese di Montalto, le cui ricerche si uniranno alle nostre.

      – __Viribus unitis!__ – disse il Giuliani; – va benissimo. Intanto sappiamo che qui sotto c'è un vecchio peccato aristocratico, di cui forse una madre vuol sottrarre le prove, od altri giovarsi per suoi fini particolari. Questa seconda congettura mi pare anzi la più ragionevole. C'è troppi congegni in questa trappola che

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