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avviene che la femmina è più bella, più graziosa ne' suoi contorni, più bianca nella sua carnagione, più elegante nelle sue movenze, più gradevole insomma a vedersi…

      – E a toccarsi; – aggiunse il Contini.

      – Sicuro, a toccarsi; e qui, parlo proprio per me! – conchiuse il Giuliani, tra le risa dell'uditorio.

      Il Contini si disponeva a rispondere; ma in quel mentre capitan Dodero, che era seduto in capo alla tavola, colla faccia rivolta all'entrata, alzò la mano, in atto di trinciare una benedizione.

      – Ah, ecco un renitente! – gridò l'avvocato Emanuel, volgendo gli occhi all'uscio.

      – Il figliuol prodigo! – soggiunse il Lorenzini. – Ammazziamo il vitello grasso.

      – Sul tardi mordono i mùggini! – disse il Giuliani, ripetendo un noto proverbio genovese, tolto a prestanza dai pescatori.

      – Vieni, – cantò Marcello Contini,

      Vieni all'amplesso estremo

      D'un genitor cadente;

      Il giudice supremo

      Ti mandi…

      – Uno stuzzicadente! – interruppe l'Assereto, che era egli appunto il nuovo venuto, accolto con tanta gazzarra, dai radunati. – Il verso cresce, ma tu cali di mezzo tono, e i conti si pareggiano.

      – Hai detto la verità, Assereto! – disse il Savioli. – Per te non c'è più altro in tavola. Chi tardi arriva male alloggia.

      – Non ho appetito, io! Sono venuto per salutarvi e ragionare di cose gravi… se si può. —

      IX

      Dove si chiarisce la bontà del metodo induttivo.

      – Se si può! – ripetè capitan Dodero. – Si può sempre, purchè se n'abbia voglia.

      – Anzitutto, bevi! – soggiunse il Contini, mescendogli nel suo bicchiere.

      – Le tue bellezze; grazie! – rispose l'Assereto, accostando il bicchiere alle labbra.

      – E raccontaci che cos'è avvenuto di te, – entrò a dire il Lorenzini, – che non t'abbiamo più visto da due giorni.

      – Lo saprete insieme colle cose gravi per le quali sono venuto stanotte.

      – Ah, gli è vero: parliamone dunque, e subito.

      – __Paulo majora canamus!__ – disse il Giuliani. – Eccoci ad ascoltarti. —

      Ed egli, e gli altri tutti, si raccolsero nel più profondo silenzio per udire le cose gravi dell'amico Assereto. Questi non entrò subito in materia, e, fosse per meglio disporre gli animi a prestargli attenzione, o fosse per non dipartirsi da certe loro consuetudini di conversazione, si trattenne in quella vece a fare alcune dimande, in maniera d'esordio.

      – Amici, – diss'egli gravemente, – siamo Templarii?

      – Siamo! – risposero parecchi ad una voce.

      – E da senno, s'intende, non già per modo di celia?

      – Da senno.

      – Deliberati, – proseguì l'Assereto, – ad operar di concerto, ogni qualvolta uno di noi abbia bisogno degli altri? Pronti a soccorrere i deboli contro i prepotenti, a sventare i maneggi degli imbroglioni, a romper le trame dei tristi, quando tornino a danno di noi, o degli amici nostri?

      – Perdio! e lo dimandi? – gridò il Lorenzini. – Pronti deliberati, col senno e colla mano, in ogni caso, in ogni occorrenza.

      – Orbene, qui abbiamo un caso, per l'appunto: il caso di una fanciulla che è sparita da casa sua, non si sa come, ma certo per opera di furfanti matricolati, e assai potenti per giunta, poichè i signori di palazzo Ducale non vogliono darsene briga, certo per tema di scottarsi le dita.

      – Questo è pan pe' tuoi denti! – disse capitan Dodero, volgendosi al Giuliani. – Due paroline sul giornale, e poi si provino a star quatti!..

      – No! – rispose il giornalista. – L'accusa sul giornale ha da lasciarsi pei casi disperati. Vediamo in cambio se non si potesse far meglio. —

      Il consiglio del Giuliani dovette parer buono, perchè i colleghi di lui si fecero a chiedere all'Assereto che volesse raccontar loro per filo e per segno ogni cosa, e stettero ad udirlo con molta attenzione.

      L'ottimo Assereto parlò forse mezz'ora, senza essere interrotto, narrando partitamente e minutamente tutto quel che sapeva; come il suo e loro amico Salvani avesse avuto mano nei rimescolamenti politici de' giorni innanzi; come avesse in casa sua una sorella adottiva; come fosse stato custodito fino a quel tempo in una cassettina d'ebano il segreto dei natali di lei; come un'apocrifa perquisizione rapisse la cassettina appunto in quell'ora che il Salvani metteva a repentaglio la vita e la libertà; come egli, fallito il colpo, si mettesse in salvo, e come la fanciulla, in quella notte medesima, abbandonasse la casa, tratta fuori da una dama sconosciuta che era andata a cercarla, in compagnia d'un vecchio, congiunto, amico, o servitore che fosse.

      Queste cose i nostri lettori le sanno, e non occorre ripeterle, seguendo il filo del racconto di Giorgio Assereto ai Templari. Egli narrò inoltre del servo Michele; e questo, che i lettori ignorano tuttavia, faremo di spiegar loro in brevi parole.

      Il povero servitore, sapendo anch'egli della congiura e della parte che ci aveva il padrone, ma non volendo far contro a' suoi comandi con lasciar sola in casa la giovinetta, segnatamente dopo quel guaio della perquisizione, per un po' aveva roso il freno, misurando un centinaio di volte, con passo irrequieto, lo spazio che correva dalla cucina all'anticamera, e borbottando tra' denti qualche verso delle sue canzoni spagnuole. In tal guisa passarono due ore, che gli parvero due secoli; finalmente, non udendo mai nulla, nè una schioppettata, nè un grido, commosso dalla ansietà della padroncina, ed aggiungendovi la sua, che non era poca nè lieve, pensò di andar fuori a pigliar lingua egli stesso, e uscire una volta da tanta inquietudine. E così fece, consentendolo la signorina Maria, dopo aver pregato una vicina che volesse andare a farle compagnia, per quella mezz'ora ch'egli sarebbe rimasto fuori.

      Da casa alla piazza Carlo Felice non erano stati che due salti. Ma giunto in capo al vicolo della Casana, Michele aveva veduto una compagnia di soldati; e rifatta la sua strada, era andato per le scorciatoie fino alla Nunziata, Anche laggiù, soldati, carabinieri e sergenti di polizia; di popolo, niente. Michele ebbe insomma a confermarsi sempre più nella sua prima opinione, che il colpo fosse andato fallito. Ma Lorenzo, dov'era? Il nostro veterano volle averne l'intero; perciò mosse alla volta della Darsena. Ma non era anche giunto nei pressi di Santa Sabina, che s'imbattè in un popolano suo conoscente, appunto di quelli che dovevano menar le mani da quelle parti là, il quale gli diede in poche parole ragguaglio d'ogni cosa; tutto andato a monte; essi fuggiti in tempo e sparpagliatisi per la città; il loro comandante uscito prima di loro per andare al quartier generale; altro più non sapere di lui.

      – Per Sant'Antonio! – esclamò Michele, che giurava volentieri nel nome di quel santo, dopo il combattimento che ne portava il nome laggiù in America; – il padrone è in salvo. —

      E fattosi alquanto più tranquillo, se ne tornava a casa, pigliando la strada più larga. Passò senza intoppo per via Nuovissima, e giunto al quadrivio di San Francesco, stette perplesso un istante, se dovesse proseguire per via Nuova, o discendere dalle Vigne. Quest'ultimo consiglio la vinse; ma quel momento d'incertezza gli era tornato a danno, perchè due sergenti di polizia, sbucati di là presso, si fecero a domandargli con mal garbo dove andasse a quell'ora.

      – Non lo so; – rispose asciutto Michele, a cui la vista di que' due figuri aveva rimescolato nelle vene il suo sangue repubblicano.

      – Non lo sapete? Venite con noi! —

      Sulle prime, Michele aveva pensato a resistere; anzi, un moto delle braccia che poteva rassomigliare assai bene ad un pugno, aveva cominciato a far testimonianza del suo proposito. Ma in quel mezzo aveva scorto due carabinieri, i quali salivano l'erta, rasentando il

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