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era un uomo caduto in disgrazia, che valeva meno dell’ultimo paggio di corte.

      Riattraversò, sempre immerso nei suoi dolorosi pensieri, i giardini, nei cui viali cominciavano già ad addensarsi le prime tenebre, e si diresse verso la palazzina dalla quale era uscito prima di recarsi nella sala dei S’hen-mheng.

      Feng, il suo fedele paggio, lo aspettava sulla porta della magnifica sala, presso il gong sospeso sulla soglia. Vedendo comparire il padrone così disfatto, intuì la disgrazia che lo aveva colpito.

      «Oh mio povero signore,» esclamò, colle lagrime agli occhi. «Il Signor elefante bianco è morto dunque?»

      «Sì,» rispose il generale con voce rauca. «Tutto è finito!»

      «E il re?»

      Invece di rispondere, Lakon-tay entrò nella sala e con un gesto rabbioso gettò lungi da sé l’alto cappello a punta, di stoffa bianca, adorno d’un largo cerchio dorato con incisioni che rappresentavano dei fiori, insegna della sua carica; poi si strappò di dosso, lacerandola, la veste di seta gialla dalle maniche larghissime e la lunga sciarpa che gli avvolgeva i fianchi, facendo tutto a brandelli.

      «Che cosa fai, mio signore?» chiese Feng, spaventato.

      «Mi sbarazzo delle insegne del mio grado,» disse Lakon-tay, coi denti stretti. «Io non sono più il ministro della corte dei S’hen-mheng; oggi sono un miserabile senza carica, uno schiavo, forse un condannato ad una morte infame.

      Ma Lakon-tay non poserà la testa sotto le larghe zampe dell’elefante carnefice e non darà al suo occulto nemico, né ai grandi, né al popolo, una tale soddisfazione.

      Il vecchio generale mostrerà a tutti come sa morire un prode che ha sfidato il fuoco dei nemici del suo re.

      Maledette insegne del mio grado… Che il vento vi disperda.

      Feng, dammi un’altra veste, onde nessuno più riconosca in me il ministro della corte dei S’hen-mheng

      «Mio signore…»

      «Taci e obbedisci!…»

      Feng, che conosceva troppo bene il suo padrone, uscì per tornare poco dopo con una bracciata di pezze di stoffa dette pagne, di varie lunghezze e di varie tinte, che i Siamesi indossano in vari modi incrociandole attorno al corpo, alle gambe e alle braccia; e dei calzoni larghissimi, nonché parecchi cappelli in forma di fungo o di cono o d’imbuto.

      Lakon-tay si vestì frettolosamente, si gettò sulle spalle una fascia di seta assai larga che poi avvolse intorno al collo, in modo da coprirsi anche parte del viso, e uscì.

      «Mio signore,» gli disse Feng, che si disponeva a seguirlo. «Devo farti preparare il palanchino?»

      «No,» rispose seccamente il generale. «Va’ ad attendermi a casa mia e non dire nulla a Len-Pra.»

      Scese una ricchissima gradinata di marmo, percorse un corridoio e aperse una porticina, slanciandosi nella via.

      Era uscito dal palazzo reale.

      Capitolo III. Len-Pra

      Lakon-tay era il vero tipo del siamese, ma non aveva però quel portamento cascante, molle, snervato che si osserva in quasi tutti gli abitanti di quel regno e che produce su noi una pessima impressione.

      Era un bell’uomo, piuttosto alto, ancora vigoroso malgrado i suoi cinquant’anni, dal petto ampio e dalle braccia muscolose che indicavano l’uomo abituato a maneggiare la pesante catana dei comandanti.

      Aveva invece, al pari dei suoi compatrioti, la tinta della pelle olivastra con indefinibili sfumature rossastre, gli zigomi assai sporgenti, la fronte un po’ stretta, che terminava in alto quasi a punta al pari del mento, le labbra grosse e rosse. Ma i suoi occhi non erano smorti, piccoli, senza fuoco, col bulbo quasi interamente giallo: erano invece due bellissimi occhi neri, dal lampo vivacissimo e dal taglio perfetto, che anche le dame Siamesi gli avrebbero invidiato.

      Lakon-tay si era creata una posizione altissima, esclusivamente col proprio valore.

      Di temperamento ardente e battagliero, era entrato giovanissimo nell’esercito, pensando che forse sarebbe stato quello l’unico mezzo per raggiungere una posizione elevata, giacché suo padre, un modesto costruttore di velieri, non gli aveva lasciato che una piccola fortuna.

      Il giovane, che aveva coraggio da vendere ai suoi compatrioti, i quali hanno invece la brutta fama di essere pusillanimi, si era fatto subito largo, distinguendosi in parecchi scontri, poiché il Siam era allora in guerra cogli stati vicini.

      A trent’anni, dopo aver respinto e battuto sanguinosamente i Peguani che erano tre volte superiori di numero, aveva già ricevuto dal re la prima scatola d’oro per conservare il betel, distintivo di nobiltà, giacché nel Siam la nobiltà non è ereditaria.

      A trentacinque, già generale, dopo aver battuto le truppe birmane che avevano già varcato le frontiere, minacciando d’invadere tutto il Siam, aveva ricevuto la seconda, più grande e più elegante, ed il cerchio d’oro con fiori cesellati da mettersi sul cappello, che gli conferiva il titolo di oya, ossia di grande personaggio.

      Cessate le guerre, il valoroso generale si era ritirato come privato cittadino nella sua natia Bangkok, per godersi finalmente un po’ di tranquillità e crearsi una famiglia prima di diventare troppo vecchio.

      Phra-Bard invece, che non aveva dimenticato i servigi resi alla patria dal prode generale, lo aveva poco dopo chiamato alla corte, creandolo ministro della sua casa prima, poi ministro della corte dei S’hen-mheng, la carica più alta e più invidiata da tutti i notabili Siamesi.

      . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

      Lakon-tay, in preda a cupi pensieri, si allontanò dal palazzo reale camminando come un ebbro, cogli occhi socchiusi e la testa china sul petto, seguendo la riva del Menam, le cui acque riflettevano vagamente le ultime luci del crepuscolo.

      Bangkok è la Venezia dell’oriente e la principale città del Siam dopo la decadenza di Ajuthia, l’antica capitale dello stato, lasciata deperire per un capriccio inesplicabile dei monarchi Siamesi, i quali, al pari di quelli Birmani, amano sovente abbandonare le grandi città per dare splendore ad altre minori.

      Bangkok, quantunque salita agli onori di città da poco più di un secolo, ha oggi, compresi i sobborghi, quasi quaranta chilometri di sviluppo e un milione di abitanti e gode fama di essere opulenta se non inespugnabile, malgrado i suoi nomi fastosi.

      Ed infatti Krung-tlepha-mahasi-ayuthaja-mahadilok-rascathani, come la chiamano i Siamesi, che ci tengono ai nomi lunghissimi e che significa «la grande regal città degli angeli, la bella e la inespugnabile», non potrebbe resistere un’ora sola al fuoco d’una delle nostre moderne corazzate, quantunque, per renderla imprendibile, i Siamesi abbiano bagnato le fondamenta delle sue porte con sangue umano.

      Al pari di Venezia, la città sorge sopra alcune isolette fangose, divise in due gruppi da un braccio principale del Menam.

      La città che si estende sulla riva destra del fiume non è che una accozzaglia di casupole; quella che s’innalza sulla sinistra è veramente magnifica e cinta da mura merlate con torri e bastioni, e vi si agglomerano, non si sa come, non meno di seicentomila abitanti.

      È là che sorge il palazzo reale, dinanzi a cui tutti i passanti devono scoprirsi e chiudere l’ombrello, per non correre il pericolo di vedersi fatti bersaglio da durissime pallottole di terra, che gli arcieri di guardia scagliano con ammirabile maestria.

      Ed è pure là che s’innalzano la grandiosa piramide di phrachedi, che lancia la sua cima a oltre cento metri, edificio ammirabile per linee architettoniche e sotto la cui mole si crede siano sepolte le reliquie preziose di Sommona Kodom; i templi grandiosi dei talapoini, dai tetti a tre piani, coperti di lamine d’oro che brillano ai raggi del sole; la pagoda di vatbaromanivat colle sue magnifiche porte d’ebano ad intarsi di madreperla scolpite e lavorate con un’arte che non ha l’eguale, colle sue colonne e coi suoi tetti coperti di dorature che sono costate somme favolose; ed è là finalmente che si ammira la pagoda di vat-scetuphon

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