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vita, sono tanti principi.»

      S’appoggiò a una delle colonne, fissando le lastre di marmo bianco che coprivano il pavimento della vasta sala.

      Lo strepito d’una porta che s’apriva lo trasse bruscamente dai suoi tristi pensieri. Alzò gli occhi e trasalì.

      Ritto sul primo gradino che conduceva alla piattaforma del trono e ancora vestito del grande costume di gala, stava ritto il re, collo sguardo cupo e la fronte aggrottata.

      Phra-Bard-Somdh-Pra-Phara-Mendr-Maha-Monghut, re del Siam, era ancora un bell’uomo, quantunque di età già matura, dalla pelle un po’ abbronzata e dal portamento dignitoso, come si addiceva ad un monarca potente, anzi il più potente di tutti gli stati dell’Indocina.

      Indossava ancora, come abbiamo detto, l’abito di gran gala, avendo appena terminato allora di ricevere un’ambasciata straordinaria inviatagli dal governo francese.

      Sandet-Pra-Paramindr-Maha, suo figlio, che gli successe sul trono nel 1868, adottò, anche nei grandi ricevimenti, il costume dei generali inglesi; ma i suoi avi ci tenevano invece a fare pompa dell’abito regale siamese, il quale, se non era troppo comodo, faceva colpo sugli stranieri per la sua straordinaria ricchezza e per la sua strana forma.

      Phra-Bard aveva dunque sul capo la famosa corona reale, una specie di piramide d’oro massiccio, alta più d’un piede, ornata all’intorno di diamanti e di rubini, che doveva ben pesargli sul cranio; indossava una giubba di tessuto pesante, a lamine d’oro, che s’incrociava sotto la cintura, tutta adorna di perle e di pietre preziose di valore inestimabile; calzoni larghi, pure cosparsi di lamine e di pietre; e ai piedi aveva delle babbucce… che avrebbero potuto far felice una sultana, tanto erano ricche di rubini e di smeraldi.

      Il re doveva già essere stato informato dal ciambellano della morte dell’ultimo dei sette S’hen-mheng, poiché la sua faccia tradiva una profonda preoccupazione, e i suoi occhi erano animati da una fiamma sinistra.

      Lakon-tay, facendo uno sforzo supremo, attraversò rapidamente la sala e si lasciò cadere in ginocchio dinanzi al re, dicendogli:

      «Se mi credi colpevole, o mio re, uccidimi: sei nel tuo diritto.»

      Phra-Bard rimase silenzioso, dardeggiando però sul disgraziato ministro uno sguardo che non prometteva nulla di buono.

      Ad un tratto la collera, a malapena frenata, scoppiò con violenza inaudita.

      «Sei un miserabile!» gridò il re. «Io avevo affidato a te i miei elefanti bianchi, perché ti credevo l’uomo più atto a coprire quella carica, e tu me li hai fatti morire tutti. Tu hai nel tuo vile corpo la maledizione di Sommona Kodom!»

      «Giacché tu, o mio re, mi credi colpevole, uccidimi,» ripeté il disgraziato ministro, senza osar alzare gli sguardi verso il monarca. «Però ti giuro che la mia coscienza nulla ha da rimproverarsi; io ho speso regolarmente, fino all’ultimo tical, la rendita della provincia che tu avevi destinato alla corte dei S’hen-mheng, ed ho fatto il possibile perché a loro nulla mancasse.

      Che colpa ho io se qualcuno, che non teme la punizione di Sommona Kodom, che sfida la giusta collera del suo re e che si nasconde nelle tenebre, ha osato gettare il maleficio sugli elefanti bianchi?»

      «Credi, con questa stolta accusa, di stornare da te la mia collera?» chiese il re.

      «Lakon-tay ti ha mostrato, allorché combatteva contro i Cambogiani e contro i Birmani, come non avesse paura della morte. Perché dovrei temerla ora che non sono più giovane?»

      Phra-Bard, colpito da quelle parole, si rasserenò leggermente. La fiamma minacciosa che gli brillava poco prima negli occhi si dileguò, e anche le rughe della fronte a poco a poco si spianarono.

      «Tu hai un sospetto, generale?» chiese, dopo qualche istante di silenzio.

      «La morte dei S’hen-mheng, in così breve tempo, non mi pare naturale, o mio signore,» rispose il ministro.

      «E chi avrebbe osato gettare un maleficio sui S’hen-mheng? Dove trovare nel mio regno un uomo che abbia tanto coraggio da sfidare l’ira di Sommona Kodom?»

      «E se quell’uomo fosse uno straniero, uno che non credesse al nostro dio?» disse Lakon-tay, che s’aggrappava a tutto per ritardare la sua perdita.

      «Uno straniero!» esclamò Phra-Bard, che per la seconda volta era stato colpito dalle risposte del suo ministro.

      «Tu sai, o mio signore, che molti t’invidiano la tua potenza e la protezione che godi da parte di Sommona Kodom.»

      «E i miei S’hen-mheng,» si lasciò sfuggire, forse involontariamente, il monarca.» Il mio vicino, il re di Birmania, che possiede un solo elefante bianco e già molto vecchio, mi aveva proposto, or non è molto, una somma favolosa perché gli cedessi uno dei miei S’hen-mheng

      Ma subito dopo, quasi si fosse pentito di aver pronunciato quelle parole, aggiunse con un cattivo sorriso:

      «No, non può essere possibile, il re di Birmania è buddista al pari di noi, e non avrebbe osato sfidare la collera di Sommona Kodom, che protegge pure il suo regno e che il suo popolo adora al pari del mio. Se ciò fosse avvenuto, Sommona ci avrebbe fatto ritrovare altri elefanti bianchi, mentre tutte le spedizioni, da me organizzate con immense spese, sono tornate a mani vuote.

      Tu solo sei colpevole di aver causato la morte dei S’hen-mheng per inesperienza o per altre cause che io ancora ignoro; grandi e popolo ti accusano, e domani chiederanno giustizia.»

      «Allora fammi uccidere,» rispose Lakon-tay. «Un generale che ha sfidato la morte sui campi di battaglia, per la gloria e la grandezza della nazione, non ha paura.»

      Phra-Bard, in preda ad una viva eccitazione, si mise a passeggiare per l’ampia sala, senza rispondere al ministro. Aveva la fronte tempestosa ed il cupo lampo era tornato a brillare nei suoi occhi, indizi certi d’una collera violentissima.

      Ad un tratto si fermò dinanzi a Lakon-tay, che era rimasto sempre in ginocchio sul primo gradino del trono, dicendogli con voce aspra:

      «Che cosa accadrà ora del mio regno, privo della protezione degli elefanti bianchi, che racchiudevano l’anima di Sommona Kodom? Quali tremende sventure piomberanno sul Siam? Carestie, epidemie, invasioni di nemici, disastri inenarrabili, inondazioni e terremoti; e forse suonerà l’ultima ora per la mia dinastia.

      E tutto ciò lo dovremo a te, miserabile, che non hai saputo curare la salute dei nostri S’hen-mheng ed hai irritato il nostro dio.

      Levati dalla mia presenza e torna a casa tua, dove attenderai i miei ordini. Il popolo ed i grandi vorranno giustizia e l’avranno.»

      «Grazia per Len-Pra,» gemette il disgraziato ministro.

      «Tua figlia diverrà schiava, a meno che…»

      «Prosegui, mio signore,» disse Lakon-tay, nei cui sguardi brillò lampo di speranza.

      «…a meno che tu non trovi il modo di procurarmi almeno un S’hen-mheng

      «Se colla mia vita potessi trovarlo, non esiterei a sacrificarla, mio signore.»

      «Tu sei maledetto da Sommona Kodom e la tua vita non vale, oggi, quella del mio ultimo servo. Vattene e attendi a casa tua il mio castigo.»

      Ciò detto Phra-Bard, che pareva in preda ad una collera furiosa, si diresse verso una delle porte di ebano, incrostate d’avorio e di madreperla, che mettevano negli appartamenti reali, e l’aperse violentemente.

      «Oh mio signore, grazia per Len-Pra,» gridò il disgraziato ministro.

      Il re richiuse la porta con fracasso, senza degnarsi di volgersi, e scomparve.

      Lakon-tay si alzò in piedi, coi lineamenti sconvolti da un intenso dolore.

      «Tutto è finito,» disse, «ma i grandi ed il popolo non assisteranno alla mia punizione. Il vecchio generale, vincitore dei Birmani e dei Cambogiani, non ha paura della morte.»

      Si diresse verso la gradinata che conduceva ai giardini reali, con passo calmo. Non si accorse nemmeno che la sentinella di guardia

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