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il boschetto spinoso che copriva la cinta.

      Degli uomini erano comparsi sulle difese interne armati di fucili. Pareva che si preparassero a far fuoco, quando una voce imperiosa gridò:

      – Fermi! Sono amici! Aprite la porta!

      – Ohe, amico Tremal-Naik, – gridò Yanez con voce giuliva. – Non abbiamo affatto bisogno del piombo noi. Ne abbiamo avuto già abbastanza di quello dei dayaki.

      – Yanez! – esclamò l’indiano, con una vera esplosione di gioia.

      – Chi credevi che fosse dunque?

      – Alzate la saracinesca! Lesti! I dayaki tornano alla riscossa!

      Una enorme tavola di legno di tek, pesante come fosse di ferro, fu innalzata da parecchi uomini mediante funi sospese a grosse carrucole e le tigri di Mompracem col pilota ed il meticcio, si precipitarono entro il kampong, mentre i difensori della cinta salutavano gli assedianti con due colpi di spingarda e un violentissimo fuoco di fucileria.

      Un uomo di statura piuttosto alta, un po’ attempato, avendo i baffi ed i capelli brizzolati, di taglia però ancora elegante ed insieme vigorosa, dai lineamenti fini, la pelle un po’ abbronzata e gli occhi nerissimi, aveva aperte le braccia per stringere il portoghese.

      Non indossava il costume dei ricchi bornesi, bensì quello degli indiani modernizzati i quali hanno ormai rinunciato al doote e alla dubgah pel costume anglo-indù, più semplice e più comodo, consistente in una giacca di tela bianca con alamari di seta rossa, fascia larghissima ricamata in oro e calzoni strettissimi pure bianchi e turbantino.

      – Qui, sul mio petto, amico Yanez! – aveva esclamato, abbracciandolo strettamente. – È destinato che debba sempre ricorrere alla generosità ed al valore delle invincibili tigri di Mompracem. Come sta la Tigre della Malesia?

      – Muore di salute.

      – E la tua Surama?

      – Mi ama sempre intensamente. E Darma dov’è che non la vedo?

      – La tigre o mia figlia?

      – L’una e l’altra, giacchè mi scordavo della tua brava bestia.

      – Mia figlia dorme in questo momento e la tigre marcia verso la costa con Kammamuri.

      – Come! il maharatto non è qui? – esclamò Yanez.

      – Temendo che Tangusa non avesse potuto raggiungervi o guidarvi qui, egli è partito nonostante i miei consigli, con una piccola scorta e forse a quest’ora, se è riuscito a sfuggire ai dayaki, si è imbarcato per Mompracem.

      – Lo ritroveremo più tardi.

      – Vieni, amico, – disse Tremal-Naik. – Non è questo il luogo per scambiarci le nostre confidenze. Olà, Tangusa, fa’ gli onori di casa e prepara da mangiare e da bere alle tigri di Mompracem.

      S’avviò verso il bengalow che s’alzava fra alcune immense tettoie piene di prodotti agricoli ed una doppia linea di capanne ed introdusse l’amico in una stanza pianterrena che era illuminata da una bella lampada indiana, i cui vetri azzurrognoli attenuavano la luce. Tremal-Naik non aveva rinunciato ai suoi gusti di bengalese. Ed infatti la stanza era arredata con mobili indiani, leggeri sì, ma elegantissimi e tutto all’intorno aveva quei bassi e comodi divani che si vedono in tutte le ricche abitazioni degli adoratori di Brahma, di Siva o di Visnù.

      – Un buon bicchiere di bram innanzi tutto, – disse l’indiano, empiendo due bicchieri con quell’eccellente liquore composto con riso fermentato, zucchero e succhi di varie palme che lo profumano. – Arresta il sudore.

      – Ed io sono inzuppato, come un cavallo che ha percorse dodici leghe tutte d’un fiato. Non sono più giovane, amico mio, – disse Yanez, vuotando poi d’un fiato il bicchiere. – Ed ora spiegami questo mistero.

      – Una domanda prima di tutto, se me lo permetti. Come sei giunto?

      – Colla Marianna e dopo d’aver forzata la foce del fiume. Più tardi ti narrerò i particolari di quella lotta.

      – Dove l’hai lasciata?

      – All’imbarcadero.

      – È numeroso l’equipaggio?

      – Ha forze uguali alle mie.

      Tremal-Naik era diventato meditabondo ed inquieto.

      – Sono uomini capaci di difendere il mio veliero, – disse Yanez che se n’era accorto.

      – Sono molti i dayaki, più di quanti credevo e soprattutto ben armati e anche bene esercitati.

      – Dal pellegrino?

      – Sì, Yanez.

      – L’avrai veduto, tu, quel briccone.

      – Io? Mai!

      – Non sai nemmeno tu chi è? – chiese Yanez al colmo dello stupore.

      – No, – rispose Tremal-Naik. – Io gli ho mandato un messo due settimane or sono, pregandolo di presentarsi da me per spiegarmi i motivi del suo odio, promettendogli salva la vita.

      – E lui si è guardato bene dall’obbedire?

      – Mi ha fatto rispondere invece che andassi io da lui onde consegnargli la mia testa unitamente a quella di mia figlia.

      – Tanta audacia ha avuto quel miserabile! – esclamò Yanez, indignato. – Udiamo: hai mai offeso qualche capo dayako? Quei tagliatori di teste sono ferocemente vendicativi.

      – Io non ho mai fatto male a nessuno, e poi quell’uomo non è un dayako, – rispose l’indiano.

      – Chi è dunque?

      – Alcuni affermano che sia un vecchio arabo fanatico, altri un negro e altri ancora un indiano.

      – Eppure ci deve essere un gran motivo per odiarti tanto.

      – Certo, ma più ci penso meno riesco a scoprirlo, ed invano tormento il mio cervello. Mi è venuto perfino un sospetto.

      – Quale?

      – È così assurdo che rideresti se te lo dicessi. – disse Tremal-Naik.

      – Gettalo fuori.

      – Che potesse essere qualche thug.

      Yanez invece di accogliere quelle parole con un sorriso, come l’indiano s’aspettava, era diventato lievemente pallido.

      – Sei ben certo, Tremal-Naik, – disse poi con voce grave, – che tutti i luogotenenti di Suyodhana, il capo degli strangolatori, siano stati uccisi da noi nelle caverne di Raimangal o dagli inglesi nelle stragi di Delhi? Chi ce lo assicura?

      – E tu vorresti che quel qualcuno avesse pensato a vendicare Suyodhana dopo undici anni?

      – Tu hai provata la tenacia ed hai pure provato l’odio implacabile di quegli assassini. Tu sei stato la causa della loro fine.

      Tremal-Naik era tornato a diventare pensieroso ed il suo viso tradiva una profonda angoscia. Ad un tratto, fece un gesto come per cacciare via qualche visione, poi disse:

      – No, è impossibile, è assurdo. I thugs, ammesso che ve ne siano ancora in India, non avrebbero atteso tanto. Quel pellegrino deve essere qualche furfante che cerca d’imporsi ai dayaki per fondarsi qualche sultania e che finge di odiarmi. Avrà fatto spargere la voce che io non sono un mussulmano, che io sono forse un nemico dei dayaki, una creatura inglese incaricata di soggiogarli o qualche cosa d’altro per mandarmi via di qui. Sarà tutto quello che vorrai, anche un vero fanatico, ma non un thug.

      – Sia come vuoi tu, ma mi pare che tu ti trovi in una non bella condizione. Hai perdute tutte le fattorie?

      – Le hanno saccheggiate e poi arse.

      – Sarebbe stato meglio che tu fossi rimasto con noi a Mompracem.

      – Volevo tentare di colonizzare queste coste e incivilire questi barbari.

      – E hai fatto un buco nell’acqua, – disse Yanez, ridendo.

      – Purtroppo.

      – E

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