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ho ancora pronunciato l’ultima parola, – rispose Yanez, con un sorriso. – Un giorno faremo i conti con quel messere. Per ora mettiamo in salvo l’indiano e la sua graziosa fanciulla. Dove siamo ora? Mi pare che la foresta cominci a diradarsi.

      – Buon segno, signore. Il kampong di Pangutaran non deve essere molto lontano.

      – Fra poco troveremo le prime piantagioni, – disse il meticcio che da qualche minuto osservava attentamente la foresta. – Se non m’inganno siamo presso il Marapohe.

      – Che cos’è? – chiese Yanez.

      – Un affluente del Kabatuan, che segna il confine della fattoria. Alt, signori!

      – Che cosa c’è?

      – Vedo dei fuochi brillare laggiù! – esclamò Tangusa.

      Yanez aguzzò gli sguardi e attraverso uno squarcio delle piante, ad una distanza considerevole, vide brillare nelle tenebre un grosso punto luminoso che non doveva essere un semplice fanale.

      – Il kampong! – chiese.

      – O un fuoco degli assedianti? – disse invece Tangusa.

      – Dovremo dare battaglia prima di entrare nella fattoria?

      – Prenderemo il nemico alle spalle, signore.

      – Tacete, – disse in quel momento il pilota, che si era avanzato di alcuni passi.

      – Che cosa c’è ancora? – chiese Yanez, dopo qualche minuto.

      – Odo il fiume rompersi contro le rive. Il kampong si trova dinanzi a noi, signore.

      – Attraversiamolo, – rispose Yanez risolutamente, – e piombiamo sugli assedianti a passo di carica. Tremal-Naik ci aiuterà dal canto suo come meglio potrà.

      7. Il kampong di Pangutaran

      Cinque minuti dopo il drappello guardava silenziosamente il fiumicello che era scarsissimo d’acqua e si radunava sulla riva opposta che era priva d’alberi.

      Una vasta pianura, interrotta solo da qualche gruppetto di palme e di pombo, si estendeva al di là, spingendosi verso una grossa costruzione sopra la quale si scorgeva una specie di torricella che pareva un osservatorio.

      Cominciando appena appena allora a diradarsi le tenebre, non era ancora permesso discernere che cosa veramente fosse, ma il pilota e il meticcio non avevano bisogno della luce per sapere dove si trovavano.

      – Il kampong di Pangutaran! – avevano esclamato ad una voce.

      – E coi dayaki intorno, – aveva aggiunto Yanez, aggrottando la fronte. – Che il grosso delle loro forze sia giunto prima di noi?

      Infatti numerosi fuochi, disposti in forma di semi-cerchio, ardevano dinanzi alla fattoria, come se i terribili tagliatori di teste avessero stabilito un grande campo.

      Tutti si erano arrestati, guardando con ansietà quei falò e cercando di rendersi conto delle forze degli assedianti.

      – Eccoci in un bell’impiccio, – mormorava Yanez. – Sarebbe un’imprudenza avventarsi alla cieca contro forze che potrebbero essere venti volte superiori e d’altronde sarebbe una follia aspettare l’alba. Mancherebbe la sorpresa e potremmo venire ricacciati.

      – Signore, – disse il pilota in quel momento. – Che cosa decidete?

      – Credi che siano molti gli assedianti?

      – A giudicarlo dal numero dei fuochi si potrebbe crederlo. Volete che vada ad accertarmi delle loro forze?

      – Yanez lo guardò con diffidenza.

      – Sospettate di me, è vero? – disse il malese, sorridendo. – Avete ragione: fino a ieri io ero un vostro nemico. Eppure avete torto: ormai ho rotto tutto con quegli uomini e preferisco essere contato fra i vostri uomini che sono malesi al pari di me, anzichè con quei selvaggi.

      – Potrai essere di ritorno prima che il sole sorga?

      – Non comparirà prima di mezz’ora ed io vi prometto di essere di ritorno fra dieci minuti.

      – Dammi dunque una prova della tua fedeltà, – disse Yanez.

      – L’avrete, signore.

      Il malese si fece dare un parang, fece un gesto d’addio e si allontanò, gettandosi in mezzo ad una piantagione di zenzero che gli assedianti non avevano ancora distrutta.

      Yanez, coll’orologio alla mano contava i minuti. Temeva vivamente che il pilota tardasse, e che la luce si diffondesse prima del suo ritorno, rendendo impossibile una sorpresa.

      Ne aveva contati sei, quando Padada comparve, correndo a corsa sfrenata.

      – Ebbene? – chiese Yanez, muovendogli incontro.

      – Il grosso che ha operato contro di noi alla foce del fiume non è ancora giunto. Gli assedianti non sono più d’un centinaio e le loro file sono così deboli da non poter resistere ad un urto improvviso.

      – Hanno armi da fuoco?

      – Sì, signore.

      – Bah! Sappiamo come se ne servono.

      Si volse verso i suoi uomini che lo avevano raggiunto e aspettavano il comando di dare addosso ai nemici.

      – Date dentro a corpo perduto, – disse loro. – Le tigri di Mompracem mostrino in quale conto tengono questi tagliatori di teste.

      – Quando ce l’ordinerete, noi sfonderemo tutto, signor Yanez, – rispose il più vecchio. – Voi sapete che noi non abbiamo mai avuto paura.

      – Accostiamoci in silenzio e prendiamoli alle spalle. Non farete fuoco se non quando lo comanderò io. Formiamo la colonna d’assalto.

      Si disposero su una doppia fila, mettendo dinanzi i più valorosi, poi il drappello si cacciò silenziosamente in mezzo ai zenzeri che erano abbastanza alti per coprirli.

      Yanez si era gettata la carabina a tracolla, ed aveva sfoderata la scimitarra e levata dalla fascia una ricca pistola indiana a due colpi, dalle canne lunghissime.

      La traversata della piantagione fu compiuta così celermente che quattro minuti dopo giungevano a ottanta passi dagli assedianti.

      I dayaki, sicuri di non venire assaliti, bivaccavano in gruppetti di quattro o cinque persone, attorno al falò.

      Trecento metri più oltre s’alzava il kampong. Era una specie di kotta, ossia di fortezza bornese, costituita da un corpo di fabbricati, circondato da larghi panconi di durissimo legno di tek, capaci di opporre una solida resistenza anche ai piccoli lilà se non ai mirim e da un folto boschetto di piante spinose che non permetteva di prenderla d’assalto ad uomini quasi nudi e privi soprattutto di scarpe.

      Sul fabbricato principale, una casa di bella apparenza, che ricordava i bengalow indiani, s’alzava una sottile torretta di legno, una specie di minareto arabo, sulla cui cima brillava una grossa lanterna.

      – Tangusa, – disse Yanez, che aveva fatto coricare i suoi uomini, volendo prima rendersi un conto esatto della situazione in cui trovavasi la fattoria, – dove si trova il passaggio?

      – Di fronte a noi, signore.

      – Non cadremo in mezzo alle spine?

      – Vi guido io.

      – Siete pronti? – chiese Yanez rivolgendosi ai pirati.

      – Pronti tutti, capitano.

      – Caricate al grido «Viva Mompracem!» onde non corriamo il pericolo di farci fucilare dai difensori del kampong. Avanti!

      I diciotto uomini si erano slanciati a corsa sfrenata, piombando sul gruppo più vicino. Nessuno poteva ormai più trattenere le terribile tigri della Malesia: nè artiglierie, nè fucili, nè armi bianche.

      Con una scarica fulminarono i cinque o sei dayaki che avevano abbandonato precipitosamente il falò attorno a cui bivaccavano, poi attraversarono come un lampo la debole linea d’assedio, continuando a sparare e urlando

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