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cinesi.

      Al passaggio del principe tutti fanno posto, salutando rispettosamente, sicché in meno di cinque minuti il drappello giunge dinanzi al palazzo imperiale, un edificio tutto in marmo, di dimensioni gigantesche, con cupole, terrazze e vasti cortili.

      Yanez balza agilmente a terra e sale precipitosamente la gradinata, seguito da Kammamuri. Il primo uomo che vede è Bindar, il bravo cavaliere che colle sue audaci evoluzioni ha stornata l’attenzione dei bufali, liberando per il momento il carro. È sfuggito miracolosamente al grave pericolo, poiché non ha nessuna ferita. Dietro di lui compariscono subito tre vecchi indiani dalle lunghe barbe bianche, con giganteschi turbanti ed ampie vesti di seta che scendono fino sulla punta degli stivaletti a punta rialzata. Tutti sono armati d’un tarwar che ha l’impugnatura d’oro e che è squisitamente cesellata. Sono i tre ministri che guidano il carro dello stato.

      Yanez, senza rispondere ai loro inchini, si avvicina al più vecchio e domandandogli subito, con voce un po’ alterata: «Ebbene, Bharawi, un altro nuovo delitto è stato dunque commesso?» «Sì, Altezza: il tuo primo ministro è stato avvelenato».

      «Dove si nascondono questi avvelenatori? Un giorno o l’altro manderanno all’altro mondo anche noi tutti, per Giove!… Mia moglie? Mio figlio?» «Stanno benissimo, Altezza».

      «Ho tremato per loro. Dov’è il morto? Vediamo se si può scoprire in quale modo lo hanno avvelenato». «È nella sala degli smeraldi».

      «Andiamo subito e non lasciate entrare nessuno fuorché Kammamuri e Bindar che sono fedeli a tutta prova».

      Attraversarono un immenso cortile, circondato da porticati di stile moresco, ed entrarono in una vasta sala che aveva le pareti di marmo verde, luccicanti quasi come enormi smeraldi.

      In mezzo, su un letto basso, coperto da una leggera trapunta di seta azzurra, giaceva un uomo già assai vecchio.

      Il suo viso era spaventosamente alterato. I suoi occhi, grigi come quelli d’una vecchia tigre, parevano dovessero uscire da un momento all’altro dalle orbite. La bocca, contorta da un ultimo spasimo, mostrava i denti, anneriti per il lungo uso del betel.

      «Basta uno sguardo per capire che quest’uomo è stato avvelenato» disse Yanez, tergendosi con un fazzoletto di seta alcune stille di sudor freddo che gli imperlavano la fronte. «Che cosa ha bevuto?»

      Bharawi si avvicinò ad un piccolo mobile che somigliava ad un pavone e tolse una bottiglia ed un bicchiere di cristallo purissimo, porgendo l’una e l’altro al principe.

      Nella bottiglia, che sapeva fortemente d’arancio, vi erano ancora tre dita d’acqua d’una brutta tinta rossastra. Yanez fiutò a lungo, poi scosse il capo mormorando fra sé:

      «Sono troppo abili manipolatori di veleni questi indiani fra sé per capirne subito qualche cosa».

      Prese una sedia a dondolo, riaccese la sigaretta che aveva lasciata spegnere e disse a Bharawi: «Ora raccontami tutto».

      «Tu sai, Altezza, che tre giorni fa si è presentato qui un bramino per chiedere una grazia».

      «Per Giove, se mi ricordo!…» rispose Yanez. «Voleva che gli accordassi una miniera di diamanti senza pagarmi una rupia, altro che grazia! Era un lurido ladrone, e l’ho mandato più che in fretta a riprendere le sue preghiere nella pagoda. Ora continua!»

      «Stamane», riprese il vecchio ministro, «tre ore dopo che tu eri partito, si è ripresentato insistendo per parlare col tuo primo ministro che stava riposandosi appunto su questo letto». «Ancora per l’affare della miniera?» «Non si sa, poiché il ministro ed il bramino sono rimasti assolutamente soli». «Ed è stata una grande imprudenza, signori miei». «È vero, Altezza, una imprudenza che egli ha pagato colla vita».

      Yanez si era alzato gettando via, con un moto rabbioso la sigaretta, e si era messo a passeggiare per l’ampia sala colle mani affondate nelle tasche. Appariva assai preoccupato, anzi quasi sgomentato, eppure coraggio e sangue freddo ne aveva da vendere a tutti i suoi sudditi. Si arrestò dinanzi alla bottiglia, tornò a fiutarla e non sentì che un leggero odore acre, attenuato assai dall’aranciata.

      «Che veleno credi tu che sia, Bharawi?» chiese. «Tu sei indiano e più vecchio di me, e tu ne saprai di più».

      «Io credo, signore, che dentro questa bottiglia abbiano lasciato cadere alcune gocce del veleno dei bis cobra». «Nessun uomo potrebbe resistere?»

      «No, Altezza. Il veleno distillato dal bis è venti volte più attivo di quello del cobra-capello».

      «È vero, Kammamuri?» chiese Yanez al maharatto. «Un giorno assai lontano sei stato un famoso cacciatore di rettili, nella temibile Jungla Nera scorrazzata dai thugs di RajmangaL».

      «Verissimo, signore. Quella grossa lucertola è più velenosa del serpente del minuto e di tutti i cobra. Non si è scoperto nessun rimedio contro il suo veleno». «Hai ucciso qualcuno di quei brutti lucertoloni?» «Delle centinaia, signore: io ed il mio padrone ne facevamo delle vere stragi». «Credi tu che dai denti si possa far sprizzare il veleno?» «Facilmente, signore». «Di che colore è quel veleno?» «Ha una tinta diafana, quasi madreperlacea» rispose il maharatto. «Hai mai provato a mescolarlo con un po’ d’acqua?»

      «No, mai, signore. Avevamo troppe occupazioni nella Jungla Nera in quel tempo per fare degli esperimenti».

      «Corpo di tutti i fulmini di Giove!…» esclamò Yanez, riprendendo la sua passeggiata più furiosamente di prima, per non arrestarsi che qualche istante sotto le quattro gigantesche lanterne cinesi che proiettavano una luce dolcissima, simile a quella della luna.

      Sagrava, il brav’uomo, e non sapendo con chi sfogarsi, se la prendeva colla sua quarantesima sigaretta che faceva fumare come una piccola vaporiera. Ad un tratto tornò verso il vecchio ministro e gli chiese: «Credi tu che fosse realmente un sacerdote bramino?»

      «Io non so, ma ho i miei dubbi, Altezza» rispose Bharawi. «Il suo volto non mi pareva quello di un uomo appartenente alle alte caste». «Dov’è Tremal-Naik?»

      «È partito una mezz’ora dopo scoperto il delitto, insieme a Timul, il famoso cercatore di piste». «Una traccia è stata trovata allora?»

      «Così pare. La Piccola Tigre del Borneo non avrebbe lasciato il palazzo se non avesse avuto dei gravissimi motivi».

      «Chi lo sa!… Se ha con sé Timul si può sperare qualche cosa. Quando quel giovanotto rileva una pista non la lascia più, e sa ritrovarla anche in mezzo alle vie polverose ed alle folte foreste. Che cosa ne pensate voi di questo nuovo delitto?»

      «Poco di buono» rispose Bharawi per tutti. «Domani o fra otto giorni potrebbe succedere anche a noi un simile caso. I vostri misteriosi nemici l’hanno a morte coi vostri ministri». «Chi sono? Vorrei saperlo». «Abbiamo lanciata tutta la nostra polizia attraverso le vie della capitale». «E nessuno è ancora ritornato?» «No, Altezza».

      «Fate la guardia al cadavere, e se succede qualche cosa, venite subito ad avvertirmi nel mio gabinetto. Già, questa notte non dormirò». «Volete dare la caccia all’assassino, signore?» chiese Kammamuri.

      «Aspettiamo prima che ritorni Tremal-Naik. Rimani anche tu qui di guardia, e se quel bramino ritorna, afferralo pel collo e, comunque sia, anche mezzo strangolato, portamelo».

      «Hum!… Dubito che si faccia vedere, signore» rispose il maharatto, scuotendo la testa.

      «T’inganni, amico. Gli assassini sentono quasi sempre un prepotente bisogno di rivedere il luogo ove hanno commesso il delitto».

      Yanez augurò ai suoi tre ministri la buonasera ed uscì dalla sala preceduto dai due mussalchi che portavano delle lanterne monumentali. Attraversò parecchie gallerie, tutte splendenti d’armi disposte a grandi gruppi assai artistici, poi altre sale immense, debolmente illuminate, e si fermò dinanzi ad una porta, dicendo ai portatori delle lanterne: «Andate: non ho più bisogno di voi».

      I due mussalchi fecero un profondo inchino, toccando colla fronte quasi le pietre lucentissime e ben levigate, e Yanez, girata bruscamente la maniglia, entrò in un elegante salotto che aveva le pareti coperte di seta azzurra ricamata d’oro,

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