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lingua che stai divorando» disse Kammamuri, ridendo.

      «Oh, no!… I vecchi topi sono assai coriacei, e poi hanno un certo odore che non sempre piace. Le nidiate giovani però sono squisite».

      «Che il diavolo ti porti» disse Yanez, scoppiando in una risata. «E con tanti arrosti di topi sei rimasto magro come un fakiro.»

      «Non tutti i giorni ne avevo, Altezza» rispose il vecchio. «Avevano sentito il nemico che li accoppava a legnate e scappavano entro le volte superiori del fognone che sono estremamente difficili a percorrersi, perché sono col pavimento in pendenza, e che pendenza!… Certe volte bisogna strisciare sul ventre per guadagnare pochi passi». «E quegli sconosciuti quando hanno invaso le cloache?» «Circa un mese fa, Altezza». «Erano molti?»

      «Non ho potuto contarli, poiché una notte mentre cacciavo in una fogna laterale mi hanno sparato contro due colpi di pistola, e notate che io non porto con me mai nessun lume, perché vedo come i gatti e le tigri».

      «Si vede dal lampo fosforescente dei tuoi occhi, che ora sono neri ed ora verdastri. E da allora non hai più osato scendere nelle cloache?»

      «No, Altezza. Se uno viene ferito e cade in uno di quei canali fangosi e puzzolenti, non si salva più, e la morte è orribile». «Hai spiato quegli uomini?» «Per molte e molte sere». «Che cosa ti parvero?» «Dei paria». «Non hai notato, fra di loro, vero o falso, un bramino?»

      Il baniano depose bruscamente il bicchiere di birra che Kammamuri gli aveva nuovamente riempito, e mandò un grido di stupore.

      «Sì, vi è fra di loro, un uomo che indossa le vesti di un bramino» disse. «Come un sacerdote si unisca a quella canaglia da tutti sfuggita, io non lo so capire e me lo domando sempre». «Giovane o vecchio?» chiese Tremal-Naik, scattando. «Vecchio» rispose il cacciatore di topi. «Ha la barba quasi bianca».

      «Non è lui l’avvelenatore. Quello che si è presentato a me era giovane ancora, sui trent’anni» disse Yanez.

      «Ed anche quello che si è ripresentato» disse Tremal-Naik. «Non ne hai veduto un altro?»

      Il baniano si passò parecchie volte la mano sulla larga fronte, poi disse, però con una certa esitazione: «Sì, infatti, una sera mi parve di vederne un altro scendere nelle cloache». «Sapresti riconoscerlo?»

      «Non so, signore, ma forse trovandomi dinanzi a lui potrebbe anche darsi. Quel tipo non mi è interamente sfuggito». «Ed era anche quello un bramino?» chiese Yanez. «Almeno ne indossava le vesti».

      «Che opinione ti sei fatta tu di quegli uomini che vivono in mezzo alle tenebre, ai topi, ai miasmi ed alle febbri?»

      «Che non siano nostri concittadini» rispose il baniano. «Quella gente mi ha rovinato e non posso più scendere nel fognone per prendere un solo topo. Per Visnù e Brahma, sparano pistolettate senza nemmeno gridare: “guàrdati!”».

      «Vuoi passare ai nostri servigi?» chiese Yanez. «Ti offriamo cinquanta rupie al mese».

      «Diverrò troppo ricco, Altezza» disse il baniano. «Non ne spendo che due in tanti giorni».

      «Le metterai da parte. Mangia, bevi e lasciaci tranquilli e fingi di esser sordo». «Se volete, Altezza, mi taglio gli orecchi».

      «Non esigo tanto. Cerca solamente di dimenticare quello che avrai udito qui dentro».

      Il baniano promise colle due mani alzate e le dita aperte, poi riprese il pasto troppo interrotto, lavorando ferocemente di denti come i topi che cacciava.

      Yanez fece volar via una sigaretta, bevette un bicchiere di birra, poi guardando la rhani le chiese:

      «Che cosa pensi tu di tutto ciò, mia piccola moglie? Sei tu alla testa del carro dello stato, anzi sei il timone, mentre io non sono che un freno».

      «Io dico che la cosa mi pare grave» rispose Surama. «Noi dobbiamo far scovare ed arrestare quei misteriosi individui».

      «Ho già fatto il mio piano» disse Yanez, accarezzandosi la bella barba. «Domani sera, appena calato il sole, io, Tremal-Naik, Kammamuri ed i miei sei fedelissimi sikkari, andremo ad esplorare quelle cloache, preceduti però dal baniano e dai due nostri molossi del Tibet». «E perché vuoi andarci tu? Non ho i miei rajaputi?»

      «Làsciali riposare. Già di quei mercenari non ho mai avuto fiducia, quantunque siano bravi soldati. Si vendono troppo facilmente».

      «Vuoi che faccia venire due o trecento montanari di Sadhja? Tu sai quanto mi sono devoti e quanto sono valorosi».

      «Senza di loro non avremmo mai potuto detronizzare quel pazzo di Sindhia. Per ora, lascia però anche loro tranquilli; se le cose si aggraveranno, faremo accorrere Khampur con due o tre migliaia di uomini e la Tigre della Malesia coi suoi terribili pirati. Daremo dei grossi fastidi all’ex sovrano, se vorrà riconquistare la corona».

      «Tu hai sempre l’idea fissa che Sindhia sia fuggito da Calcutta, è vero, mio signore?» «Sì, mia reginetta». «Che abbia ancora dei partigiani qui?» chiese Tremal-Naik. «Può darsi». «Ma la tua polizia che cosa fa?»

      «Mangia, beve, fuma, mastica betel, e dorme più che può, affermando sempre che lo stato riposa su basi di granito e che nessuno lo minaccia». «Io manderei la tua polizia a dare la caccia a quegli uomini misteriosi».

      «Quei bravi agenti farebbero venti o cinquanta metri entro le cloache, poi tornerebbero per dirci che il baniano ha sognato. No, andremo noi, senza fracasso, senza grossa scorta, e vedrai che noi otterremo qualche buon risultato».

      «E ti esponi ad un grave pericolo forse, mio signore» disse Surama. «Non hai udito che hanno sparato due colpi di pistola contro il baniano?»

      «Che cosa valgono le pistole contro di noi? Siamo gente abituata alla grossa musica del cannone ed ai colpi di mitraglia delle spingarde. È vero, Tremal-Naik?»

      «Sì, amico» rispose l’indiano. «Non ci vogliono giuocattoli contro i nostri corpi».

      «Anche una palla di pistola può uccidere se sparata al momento opportuno» disse Surama, con angoscia. «Pensaci, mio signore.»

      «Io penso che ho combattuto per più di vent’anni sotto la rossa bandiera della Tigre della Malesia, senza ricevere mai una scalfittura. E non facevano risparmio di mitraglia né i prahos di James Brooke, né gli incrociatori inglesi. Si vede che qualche buon genio mi protegge sempre quando mi scaglio nella battaglia». «Eppure ho paura, mio signore».

      «Di quei miserabili? Avremo subito ragione di loro, te lo assicuro, specialmente se appoggiati dai due molossi». «Lascia che venga allora con te». Yanez corrugò la fronte.

      «La rhani dell’Assam deve dormire nel suo palazzo» disse poi. «Se durante la mia assenza succedesse qualche cosa di grave ancora, chi comanderebbe qui?» «Ci sono i ministri».

      «Non sono gente di guerra, e badano più alle laute paghe che tu hai assegnato loro, che a tutto il resto». «Forse hai ragione, mio signore».

      «E poi vi è Soarez, nostro figlio, qui, che può da un momento all’altro correre qualche grave pericolo». «Vuoi spaventarmi, mio signore?»

      «Io credo che nessuno avrà tanto coraggio da entrare nei nostri appartamenti privati. Sono ben guardati, mi pare». «Fa’ come vuoi».

      Yanez vuotò un altro bicchiere di birra, e volgendosi verso il cacciatore di topi il quale aveva finita la cena, gli chiese: «Hai conosciuto tu il rajah Sindhia?»

      «Sì, Altezza. Regnava prima di voi e della rhani, mettendo a dura prova la pazienza del suo popolo colle sue pazzie».

      «Credi tu che quel malvagio che ha assassinata tanta gente, possa avere ancora dei partigiani?»

      «È stato troppo cattivo per averne. Valeva suo fratello, il distruttore di tutti i parenti durante i banchetti, tuttavia chi lo sa? Le rupie in India fanno sovente dei veri miracoli. Ho udito narrare che avesse da parte una fortuna, messa in salvo prima della sua detronizzazione».

      «Anche noi» disse Surama. «Però non l’abbiamo mai creduto, ed io pagavo al principe spodestato mille

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