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Aleutine, in pieno oceano Pacifico, altre a sud del Banco di Terranova o sulle coste del grande Impero russo e perfino presso le sponde della Norvegia. Anzi mi ricordo che una nave in viaggio dalla Scozia a Brema fu schiacciata da un «iceberg» che era sceso nel mare del Nord.

      – Tanto scendono!

      – E scenderanno sempre più. Se tu vivrai un secolo ne vedrai alcuni anche sulle coste della Danimarca e fors’anche della Prussia.

      – E perchè, signore?

      – Perchè la linea dei ghiacci ogni anno guadagna spazio.

      – Dunque il freddo cresce nelle regioni polari?

      – Sì, Koninson. Alcuni mari, che alcuni secoli or sono erano navigabili, ora sono ingombri dai ghiacci e alcune terre, un tempo fertili, oggi sono ridotte a deserti di neve. Vuoi degli esempi?

      – Gettateli fuori, signor Hostrup.

      – Nel IX secolo, alcuni Scandinavi che avevano fondato delle colonie in Groenlandia e in Islanda, sbarcavano su una costa ove cresceva la vite, e perciò chiamarono quella terra Vinland. Sai come si chiama oggi quel paese?

      – No, signor Hostrup.

      – Si chiama Labrador.

      – Come, nel IX secolo nel Labrador cresceva la vite!

      – Si, fiociniere. E cosa è oggi il Labrador?

      – Un deserto di neve ove la vite non crescerebbe nemmeno accanto alla stufa. Per Bacco, che discesa hanno fatto i ghiacci!

      – Un altro esempio, Koninson. Quattrocento anni fa gli Islandesi trafficavano liberamente, in pieno inverno, coi Groenlandesi. Oggi d’inverno non si arrischiano più a navigare in quel tratto di mare per non venire stritolati dai ghiacci.

      – È strano! – disse Koninson.

      – Vuoi ora un terzo esempio? Quaranta o cinquant’anni fa, sulle coste dell’America settentrionale e sulle vicine isole, vivevano in grande numero i buoi muschiati, grossi e bellissimi ruminanti dal pelo lunghissimo e dalle grandi corna. Sai perchè oggi questi ruminanti sono scomparsi?

      – Perchè, tenente?

      – Perchè il freddo è sceso a distruggere le praterie e questa è cosa quasi recente. Io ho conosciuto un capitano il quale cinquant’anni fa cacciava le balene, durante l’inverno, nella baia di Melville. Chi è l’audace baleniere che oggi ardisce entrare d’inverno in quella baia?

      – E nell’oceano antartico, la linea dei ghiacci si spinge pure sempre più innanzi?

      – Più che nell’oceano artico, Koninson. Colà si trovano dei ghiacci sopra il 50° parallelo e talvolta anche sopra il 45°, specialmente nel tratto di mare compreso fra l’America del Sud e l’Australia.

      – Che ciò dipenda dal raffreddarsi del nostro globo?

      – Certamente. Ecco l’«iceberg»; guarda come è bello!

      La montagna di ghiaccio era allora vicinissima al «Danebrog». Aveva la forma di una piramide, un’altezza di oltre cento metri e una base di trecento. I raggi del sole, riflettendosi sulle mille faccettine, la rendevano così sfolgorante che a guardarla gli occhi provavano un acuto dolore.

      Sulla cima di quel colosso, che il vento del nord spingeva verso la costa americana, alcuni uccelli marini avevano piantato i loro nidi e mandavano acute strida.

      Tutto l’equipaggio del «Danebrog», quantunque abituato a simili incontri, era salito in coperta a contemplare quel primo apportatore del freddo che, colpito in pieno dal sole, scintillava come fosse un enorme diamante.

      – Bello! – disse Koninson.

      – Ma pericoloso – aggiunse il tenente.

      Ad un tratto dalla sommità di quella montagna caddero dei frammenti di ghiaccio che produssero sull’acqua un rumore analogo a quello delle goccie d’acqua. Subito gli uccelli se ne volarono via mandando strida di spavento.

      – L’«iceberg» si rovescia!– gridò mastro Widdeak. – Attento all’onda, timoniere!

      La montagna di ghiaccio, rosa alla base dall’acqua, stava per perdere il suo equilibrio. Fu veduta oscillare da destra a sinistra per alcuni istanti, poi tutto d’un colpo la sua vetta tracciò nell’aria una grande curva e l’intera massa piombò nel mare con un cupo rimbombo. Sparve tutta, poi una grande punta azzurra emerse fra un vortice di spuma, dapprima lentamente, indi con un balzo repentino e ricadde sollevando un’ondata che fece piegare sul babordo il «Danebrog», correndo poi ad infrangersi con indescrivibile violenza contro la costa americana.

      Per alcuni minuti la montagna, che presentava una punta assai aguzza, ondeggiò spaventosamente, ora tuffandosi e ora risalendo, poi a poco a poco riprese l’equilibrio e si allontanò verso sud sempre scintillante, sempre superba, sempre gigantesca.

      Quello stesso giorno di fronte alla baia Smith, altri due «icebergs», ma di dimensioni più piccole, furono incontrati dal «Danebrog» che navigava sempre in vista della costa americana, dietro le macchie oleose che apparivano ancora numerosissime.

      Il 21 la temperatura discese bruscamente a 7° sotto zero e il vento crebbe di violenza diventando così freddo che i marinai furono costretti a indossare le vesti d’inverno.

      Verso il mezzodì il «Danebrog» entrava fra due lunghissime file di «hummoks», piccoli ghiacci di pochi metri di altezza, staccati senza dubbio da qualche campo di ghiaccio o da qualche grande «iceberg».

      Erano cinque o seicento, arrotondati gli uni, aguzzi gli altri, o scabri, o lisci, o screpolati, che si urtavano rumorosamente frangendosi e che ad ogni istante perdevano l’equilibrio prendendo nuove forme. Il sole, battendovi sopra, dava ad alcuni l’apparenza di zaffiri, ad altri di smeraldi, ametiste e diamanti di grande splendore.

      II «Danebrog» non provò gran fatica ad aprirsi il passo col suo solido sperone di acciaio e spinto da un buon vento se li lasciò ben presto tutti a poppa. Ma tre miglia più innanzi nuovi ghiacci apparvero, più solidi, più grandi e più numerosi dei primi. Li capitanava un gigantesco «iceberg» ai cui piedi nuotavano alcuni narvali, grandi pesci armati da un dente lungo assai e molto aguzzo.

      A rendere ancor più difficile la navigazione, scese dalla costa americana un nebbione fittissimo, il quale in pochi istanti coprì il mare celando agli occhi dei marinai i ghiacci.

      – Hum! – mormorò il capitano che era diventato inquieto. – Se non procediamo cauti, corriamo pericolo di rompere una costola al «Danebrog».

      Fece prendere terzaruoli su quasi tutte le vele per diminuire la velocità della nave, e mise alcuni uomini a prua con dei solidi buttafuori per respingere i ghiacci che potevano danneggiare il bompresso.

      Alle 5 del pomeriggio il nebbione era diventato così fitto che il timoniere non distingueva più l’albero di trinchetto, e i gabbieri dalle coffe a gran fatica discernevano la coperta del bastimento.

      Una viva inquietudine si impadronì dell’equipaggio. Ognuno temeva l’incontro improvviso di qualche «iceberg» che forse in quei momenti navigava a poche gomene e fors’anche a sole poche braccia.

      Di quando in quando agli orecchi degli uomini di guardia giungevano dei forti cozzi, degli scricchiolii e dei colpi sordi come di ghiacci che, perduto l’equilibrio, capitombolano e delle forti ondate venivano ad infrangersi contro i fianchi del «Danebrog» il quale procedeva alla cieca.

      Alle 10, dopo il tramonto del sole, a bordo non ci si vedeva più in là di cinque passi.

      – La cosa diventa seria assai! – disse Koninson al tenente. – Non si sa più dove si va.

      – Questo nebbione non durerà molto, fiociniere – rispose il signor Hostrup. – Appena il sole risorgerà lo dileguerà, io vedrai.

      – Ma prima di domani mattina…

      – Taci!…

      – Che avete udito?

      – Qualche gran ghiaccio naviga presso di noi, Koninson. Non odi questo gridìo?

      Il

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