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sarei lietissimo, signore.

      Il capitano gli prese la destra e gliela strinse fortemente.

      – Siete un brav’uomo, signor Hostrup.

      – Mi sta sul cuore la scommessa, signor Weimar, – rispose Hostrup. – E da parte mia rischierò senza esitare la mia vita, pur di tenere sempre alta la fama dei balenieri danesi.

      – Grazie, tenente. Ed ora, carpentiere, al lavoro.

      Dovendosi approfittare della sola bassa marea, il carpentiere si mise alacremente all’opera, aiutato da una squadra di marinai che su un’altra baleniera gli avevano recato gli attrezzi necessari, una considerevole quantità di legname e parecchie grosse lastre di rame, mentre alcuni altri sgombravano la prua delle botti che l’occupavano e mettevano in opera le pompe per estrarre l’acqua entrata dalla falla.

      Il tenente Hostrup, che di simili lavori si intendeva poco, tornò a bordo a prendere il suo fucile.

      – Faremo una passeggiata sull’isola, – disse a Koninson. – Vedo dei grossi uccelli e forse nei «fiords» si nasconde qualche foca o qualche tricheco. Prendi un fucile e seguimi....

      – Maneggio meglio il rampone che le armi da fuoco, tenente, – rispose il fiociniere. – Voi penserete ai volatili e io alle foche.

      – Come vuoi, amico.

      S’imbarcarono sul piccolo canotto e presero il largo girando attorno agli scoglietti sui quali venivano a rompersi le ultime onde sollevate dall’uragano.

      Arrancando con lena, in brevi istanti raggiunsero l’isola, ma da quella parte la costa non offriva approdi, essendo tagliata quasi a picco e molto alta. Attorno vi volteggiavano numerosi uccelli marini, i quali fra i crepacci avevano piantato i loro nidi.

      Proseguendo, i due cacciatori scoprirono ben presto un piccolo «fiord», il quale terminava in una sponda bassa coperta in parte d’una sabbia finissima e in parte di ciottoloni neri e arrotondati dal continuo lavorio delle onde.

      Legarono il piccolo canotto ad una rupe e balzarono a terra portando le loro armi.

      L’isola offriva un brutto aspetto. Qua e là si rizzavano delle alture aridissime, più oltre delle grandi rocce nere nei cui crepacci scorgevansi alcuni magri licheni, qualche rosa canina selvatica, o qualche pianticella di ribes o di uva spina.

      – Che desolazione! – esclamò Koninson. – Troveremo almeno delle foche?

      – Lo spero, fiociniere, – rispose il tenente. – Una volta qui erano talmente numerose, che alcuni balenieri vi facevano i loro carichi d’olio; oggi però, in causa delle cacce accanite, non se ne incontrano che pochissime.

      – Dovevano, distruggerne un numero enorme quei balenieri per fare un carico intero.

      – Delle migliaia, Koninson.

      – Allora non tarderanno a sparire dappertutto.

      – Ciò avverrà sicuramente e forse fra non molto. Già le sponde dell’America settentrionale cominciano a essere spopolate.

      – Che disgrazia! E dire che sono animali così inoffensivi! Se la prendessero almeno cogli orsi bianchi, quei balenieri paurosi.

      Dato uno sguardo alle rive, i due cacciatori si addentrarono nell’isola, ove gli uccelli si mostravano talmente numerosi da oscurare talvolta la luce del sole.

      Ora passavano immense bande di urie, uccelli dalle penne nere e bianche, il becco lungo e dritto e le gambe collocate così indietro da costringere quei volatili a sedersi anzichè coricarsi; ora stormi di strolaghe, bellissimi uccelli col petto e il dorso neri, le ali macchiate e le parti inferiori di un bianco niveo, e ora lunghe file di oche bernine, grosse come un’oca comune e che facevano un baccano indiavolato.

      – Per bacco! – esclamò il tenente. – Se si volesse fare un carico di uccelli la fatica non sarebbe molta.

      – Accontentiamoci di empire la dispensa del cuoco, – disse Koninson. – All’opera, signore.

      II tenente si arrampicò su di una rupe, si accomodò sulla cima e di là cominciò a sparare contro le bande di volatili che gli passavano sopra, a destra, a sinistra e dinanzi senza mostrarsi spaventate.

      In breve parecchi gabbiani, oche, urie e strolaghe si trovarono a terra colpite dal piombo del valente cacciatore. Koninson ammazzava gli uccelli feriti a colpi di rampone.

      Quelle continue detonazioni finirono però collo spaventare i volatili, i quali si allontanarono dalla rupe volando verso le coste dell’isola.

      – Siete un tiratore da far paura, – disse Koninson al tenente, che raccoglieva le vittime. – C’è qui tanta carne da nutrire per un’intera settimana l’equipaggio del «Danebrog».

      – E non ho ancora finito, fiociniere. Ho visto laggiù due grossi uccelli e conto di abbatterli.

      Ammucchiarono le vittime sotto la sporgenza di una rupe e si rimisero in cammino riaccostandosi al mare, e precisamente verso un piccolo «fiord», sopra il quale volteggiavano due grandissimi uccelli dalle penne bianche e nere.

      – Cosa sono? – chiese Koninson. – Aquile forse?

      – Aquile qui? A me sembrano due albatros.

      – Ma gli albatros sono uccelli dei mari australi, signore.

      – Non ti dico, di no, ma non pochi di quei voraci giganti vanno a piantare i loro nidi, sulle isole dei mari della Cina e del Giappone e in giugno si spingono, sin qui.

      – La loro carne è eccellente?

      – Se devo dirti la verità, è coriacea; però tenuta qualche tempo nel sale e condita con una salsa piccante, non è sgradevole.

      I due cacciatori giunsero ben presto al «fiord», ma i due albatros, un po’ magri si ma veramente giganteschi, le cui ali spiegate misuravano non meno di cinque metri, si allontanarono e così rapidamente, che in pochi istanti, furono fuori di vista.

      – Vigliacchi! esclamò il fiociniere.

      – E lo sono davvero, malgrado la loro mole e, il loro formidabile rostro – disse il tenente.

      – Ma… oh!…

      – Che hai?

      – Guardate alla vostra sinistra, presso il mare! – disse Koninson a bassa voce.

      Il tenente guardò nella direzione indicata e sopra una roccia che cadeva a picco sul mare, ma poco alta, scorse una massa rossiccia, di dimensioni ragguardevoli.

      – È una foca! – disse Koninson.

      – No, deve essere un tricheco – disse il tenente, che caricò subito il fucile a palla.

      – Bisogna ammazzarlo.

      – Lo ammazzeremo, fiociniere. Cerchiamo però di non farci vedere, altrimenti si lascerà cadere in mare.

      Si gettarono in mezzo alle rocce e tenendosi sempre nascosti giunsero a soli duecento passi dalla preda che si scaldava ai raggi del sole mezza coricata su un fianco.

      Il tenente non si era ingannato. Era proprio un tricheco, che taluni chiamano anche morsa, lungo quasi quattro metri e con una circonferenza di tre, coperto di un pelo corto, scarso e rossiccio. Si vedevano distintamente i suoi lunghi denti di avorio che scendono verticalmente dalla mascella superiore.

      Tali animali, che un tempo erano numerosissimi su tutte le coste settentrionali dell’Asia e dell’America, sono inoffensivi a terra, ove si muovono con molto stento, ma aggrediti in mare, ove nuotano con grande sveltezza, si difendono disperatamente e più di una volta i loro solidi denti spezzarono le scialuppe dei cacciatori.

      Il tenente mandò Koninson dietro una rupe che era a breve distanza da quella occupata dal tricheco, poi puntò lentamente il fucile, mirò con somma attenzione e sparò.

      Il tricheco, colpito alla testa, fece un brusco salto mandando una specie di ruggito e si mise a dibattersi, cercando tuttavia di guadagnare l’orlo della roccia per precipitarsi in mare. Ma Koninson era vicino; in dieci salti lo raggiunse e gli vibrò

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