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I figli dell'aria. Emilio Salgari
Читать онлайн.Название I figli dell'aria
Год выпуска 0
isbn
Автор произведения Emilio Salgari
Жанр Зарубежная классика
Издательство Public Domain
– Ah! Signore! Anche voi dubitate della nostra innocenza! – esclamò Rokoff. – Credete voi che un onorato ufficiale dei cosacchi del Don, che ha due medaglie al valore guadagnate sotto Plewna e che uno dei più ricchi negozianti di tè della Russia meridionale abbiano potuto assassinare un cinese per derubarlo?
– Io non so a quale delitto volete alludere – disse lo sconosciuto, con tono però meno duro, – e non dubito affatto che voi siate due galantuomini.
– Siamo due vittime dell’odio secolare dei cinesi contro gli uomini di razza bianca.
– Non metto in dubbio ciò che mi dite e per darvene una prova ecco la mia mano signor…
– Dimitri Rokoff… del 12° Reggimento dei cosacchi del Don.
Si strinsero la mano, poi il comandante dello «Sparviero» disse:
– Venite: voi non avete ancora veduto la mia macchina.
– Ed il mio amico?
– Lasciatelo riposare. L’emozione provata deve averlo abbattuto. È il negoziante di tè costui?
– Sì, signor…
– Chiamatemi semplicemente «il capitano».
– Un capitano russo, perché parlate la nostra lingua come foste nato sulle rive della Neva o del Volga.
Un sorriso enigmatico si delineò sulle sottili labbra del capitano.
– Parlo il russo come il francese, l’italiano, il tedesco, l’inglese e anche il cinese. Vedete dunque che la mia nazionalità è molto difficile da indovinare. Ma che importa ciò? Sono un europeo come voi e ciò basta, o meglio sono un uomo di razza bianca. Venite, signor Rokoff, ah! Soffrite le vertigini?
– No, capitano.
– Meglio per voi: godrete uno spettacolo superbo, perché in questo momento noi ci libriamo sopra Pechino. Macchinista!
– Signore – rispose una voce.
– Rallenta un po’. Voglio godermi questo meraviglioso panorama.
Stavano per uscire da quella specie di tenda, quando Rokoff udì Fedoro gridare con accento atterrito:
– La mia testa! La mia testa!
Il cosacco si era precipitato verso l’amico, frenando a malapena una risata.
– L’hai ancora a posto, Fedoro! – esclamò. – Quei bricconi non hanno avuto il tempo di tagliartela.
Il russo si era alzato, guardando sbalordito ora Rokoff ed ora il comandante dello «Sparviero».
– Rokoff! – esclamò. – Dove siamo noi?
– Al sicuro dai cinesi, amico mio.
– E quel signore? Ah! Mi ricordo! L’uccello mostruoso! Il rapimento al volo! Voi siete il nostro salvatore!
– Io non sono che il capitano dello «Sparviero» – rispose il comandante, tendendogli la mano. – Signore, non avete più da temere, perché siamo ormai lontani da Tong. Venite: vi mostrerò la mia meravigliosa macchina volante o meglio la mia aeronave. Macchinista! Preparaci intanto la colazione.
UNA MACCHINA MERAVIGLIOSA
«La mia meravigliosa aeronave» aveva detto il comandante. Ah! Era ben meravigliosa quella macchina volante che aveva rapito, sotto gli occhi stupiti dei cinesi, i due prigionieri condannati a morte. Rokoff e Fedoro, appena usciti dalla tenda, si erano arrestati mandando un duplice grido di sorpresa e di ammirazione. Quale splendido congegno aveva ideato quello sconosciuto che si faceva chiamare «il capitano!» Era lo scioglimento dell’arduo problema della navigazione aerea, che da tanti anni turbava la mente degli scienziati, e quale scioglimento! Una perfezione inaudita, assolutamente sbalorditiva.
Dapprima Rokoff e Fedoro avevano creduto di trovarsi dinanzi ad uno dei soliti palloni, dotato di qualche motore, ma si erano subito disingannati. Non era un aerostato, era una vera macchina volante, una specie di uccellaccio mostruoso, che solcava placidamente l’aria coll’arditezza e la sicurezza dei condor delle Ande o delle aquile.
Un uccello veramente non lo si poteva chiamare, quantunque nelle ali e nel corpo ne rammentasse la forma.
Consisteva in un fuso lungo dieci metri, con una circonferenza di tre nella parte centrale, costruito in un metallo argenteo, probabilmente alluminio, nel cui centro si vedeva un motore che non doveva però essere mosso né dal carbone, né dal petrolio, né da alcun olio o essenza minerale, perché non si vedeva fumo né si sentiva alcun odore.
Ai suoi fianchi, mosse da quella macchina misteriosa, agivano due immense ali, simili a quelle dei pipistrelli, con armatura d’acciaio o d’alluminio e la membrana composta da una spessa seta o da qualche altro tessuto che le rassomigliava.
Un po’ al disotto del fuso, che serviva di ponte e anche di abitazione, si estendevano a destra ed a sinistra, tre piani orizzontali, lunghi ciascuno una decina di metri, pure con armatura di ferro, ricoperti di stoffa, lontani l’uno dall’altro quasi un metro, vuoti nel mezzo, che dovevano, presumibilmente, agire come gli aquiloni e mantenere l’intero apparecchio sollevato.
Non era però tutto. Sulla punta estrema del fuso, un’elica immensa, che girava vorticosamente, con velocità straordinaria, pareva che dovesse aiutare il movimento delle ali, mentre a poppa si vedevano due piccole alette che dovevano certamente servire per dare all’aerotreno la direzione voluta.
Fedoro e Rokoff erano rimasti immobili, colla bocca aperta, impotenti ad esprimere la loro ammirazione. Il capitano, appoggiato alla balaustrata che correva intorno al fuso metallico per impedire delle cadute pericolose, li guardava sorridendo silenziosamente.
– Che cosa ne dite di questo treno aereo? – chiese finalmente al russo ed al cosacco.
– Meraviglioso!
– Sorprendente!
– Magnifico!
– Sì un capolavoro – rispose il capitano con vivacità. – Ecco risolto finalmente il problema della navigazione aerea.
– Ma… signore… – disse Fedoro.
– So che cosa volete chiedermi – disse il capitano. – A più tardi le spiegazioni, dopo la colazione. Date invece uno sguardo a questo superbo panorama. Pechino si estende dinanzi a noi e fra poco ci libreremo sopra la città imperiale. Ora ci troviamo nel parco dei Mari del Sud, guardatelo, signori, una cosa veramente splendida!
Lo «Sparviero», il quale si avanzava con velocità moderata, certo per volere del suo comandante, filava sopra il famoso Nanhai-tze, uno dei più splendidi parchi del mondo, che si estende al sud della capitale cinese, da cui si trova separato da una piccola pianura paludosa.
È un immenso giardino, vasto tre volte più di Pechino, perché ha una superficie di circa duecento chilometri quadrati, con una periferia di sessantacinque, difeso da massicce muraglie che si connettono coi baluardi eretti a difesa degli approcci della capitale.
Villaggi, campi coltivati, boschi, costruzioni strane, attendamenti delle colonie militari, sfilavano dinanzi agli sguardi meravigliati di Rokoff e di Fedoro, mentre più al nord pareva che s’avanzasse correndo, l’enorme massa di Pechino, colle sue torri, coi suoi templi, colle sue muraglie, colle sue migliaia e migliaia di guglie di antenne, coi suoi tetti di porcellane azzurre, verdi e giallo dorate.
– Che spettacolo! – esclamava Fedoro.
– Superbo, magnifico! – ripeteva Rokoff con entusiasmo. – Ora comprendo la passione degli aeronauti! Essi soli possono contemplare simili meraviglie perché hanno la mobilità. Ecco la gigantesca città che pare si precipiti contro di noi! Pechino a volo d’uccello! Chi l’ha mai veduta?
– E come procediamo bene, senza scosse, senza soprassalti! Che macchina perfetta, Rokoff!
– Meravigliosa,