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a forza entro una gabbia di bambù, d’una solidità a tutta prova e così stretta da contenerli a malapena.

      Quando Rokoff si sentì libero, mandò un vero ruggito. S’aggrappò alle sbarre e le scosse con furore, mentre dalle sue labbra contratte uscivano urla feroci.

      – Banditi! Canaglie! Vi mangerò il cuore! Siamo europei! Aprite o vi uccido tutti!

      Erano vani sforzi. I bambù non si piegavano nemmeno, quantunque l’ufficiale, come abbiamo detto, fosse dotato d’una forza più che straordinaria. Fedoro invece, accasciato da quell’ultimo colpo, si era lasciato cadere in fondo alla gabbia girando intorno sguardi inebetiti.

      Intanto il cancelliere era rientrato tenendo in mano un cartello su cui si vedevano dipinte delle lettere contornate da geroglifici superbi. Lo mostrò per un momento ai due prigionieri, poi lo appese sotto la gabbia.

      Fedoro era diventato orribilmente pallido e si era avventato contro le traverse come se avesse voluto strappare al cancelliere quel cartello che annunciava la loro pena.

      Ed infatti aveva potuto leggere:

      Condannati a morte perché assassini.

      Subito otto uomini avevano alzato la gabbia ed erano entrati in un’altra sala dove se ne vedevano parecchie altre contenenti ciascuna due prigionieri, ma molto più piccole, tanto anzi, che i disgraziati che vi erano rinchiusi non potevano fare il più piccolo movimento senza mandare urla spaventose.

      – Fedoro – disse Rokoff, che aveva gli occhi schizzanti dalle orbite. – È finita, è vero?

      – Sì, se non interviene l’ambasciatore russo.

      – E oseranno ucciderci?

      – Come cinesi.

      – Perché ci hanno vestiti così?

      – Onde nessuno possa sospettare che noi siamo europei.

      – E come ci faranno morire?

      – Non so… ma ho paura e sento che divento pazzo!…

      I CONDANNATI

      L’Inquisizione di Spagna ha avuto nei cinesi i suoi maestri. Questo popolo, che da duemila anni si è, per così dire, cristallizato, senza fare un passo nella via della civiltà, fra le molte cose ha conservato anche oggidì i suoi supplizi.

      Come torturavano venti secoli or sono, i giustizieri cinesi martirizzano i disgraziati prigionieri anche ora.

      Gli uomini erano così fatti allora: bricconi ve n’erano in quei tempi remoti e ve ne sono ancora: perché cambiare? Ecco il ragionamento della magistratura cinese.

      Una, sola tortura è stata abbandonata, la terribile colonna di fuoco, inventata dall’imperatore Chean-Sin per far piacere alla bella Fan-ki, che desiderava vedere contorcersi, sul bronzo ardente, i condannati a morte. Strumento spaventevole, consistente in una colonna di bronzo cava, che si riempiva di carbone finché diventasse tutta rossa, intonacata esternamente di pece e di resina e che i condannati dovevano a forza abbracciare, mediante catene, e rimanervi finché le loro carni fossero completamente consumate. Eccettuata questa, tutti gli strumenti di tortura sono stati conservati.

      Per punire coloro che hanno commesso piccoli falli, si servono del bastone. Cinquanta e anche cento legnate, somministrate con una rapidità così prodigiosa che il condannato rischia sovente di morire soffocato, bastano a punire piccoli falli, e anche a rovinare talvolta il dorso al disgraziato che le riceve e che non ha avuto la precauzione di regalare qualche tael agli esecutori.

      Pei recidivi hanno la cangue, che i cinesi chiamano veramente kia, specie di tavola che pesa ordinariamente quindici chilogrammi e che serve per imprigionare il collo del condannato e talvolta anche le mani.

      Parrebbe a prima vista una pena tollerabilissima; invece finisce per diventare estremamente dolorosa, perché il povero condannato non può mangiare da solo e sovente corre il pericolo di morire di fame per incuria dei carcerieri.

      E questo non è tutto. Dopo un mese le spalle si rompono e si coprono di piaghe e quando la pena è finita, il prigioniero non è più che uno scheletro. Sono queste le torture minime, che di rado uccidono. Hanno poi gabbie strettissime dove il condannato è costretto a vivere ripiegato in due per mesi e mesi, rovinandosi le carni contro i bambù e storpiandosi le membra; hanno gabbioni più vasti dove si ammucchiano in una sola volta perfino quindici condannati, ai quali i carcerieri danno di rado da mangiare e dove sono costretti a vivere fra la più ripugnante sporcizia.

      Hanno poi altre gabbie irte di chiodi che traforano atrocemente le gambe e le mani dei pazienti; coltelli d’ogni dimensione per tagliuzzare la pelle e quindi strapparla a lembi, funi per strangolare, tenaglie roventi per strappare la carne; poi la terribile pena del ling-cink, ossia del taglio dei diecimila pezzi.

      La decapitazione poi è cosa comune e si eseguisce in pubblico, sotto una tettoia, mediante una larga sciabola, pena forse più temuta delle altre, non amando il cinese andarsene all’altro mondo colla testa staccata.

      E quali orrori poi dentro le carceri! Non sono carcerieri, sono feroci manigoldi, che inchiodano alle pareti le mani dei prigionieri allorquando mancano le catene; che bastonano senza pietà quelli rinchiusi nelle gabbie per farli tacere, quando quei miseri non possono sopportare più oltre l’atroce martirio; che preferiscono appropriarsi dei viveri che il governo assegna alle amministrazioni delle carceri; e che piuttosto di incomodarsi, allorquando qualche prigioniero muore molto sovente di fame, lo lasciano imputridire nella sua gabbia in attesa che i topi lo facciano sparire!

      . . . . . . . . . . . . . . .

      Fedoro e Rokoff erano rimasti come inebetiti dall’orrore, dinanzi all’atroce scena che si svolgeva sotto i loro occhi.

      Intorno a tutte quelle gabbie, degli aguzzini armati di bastoni e di ferri infuocati, bastonavano senza posa i disgraziati che vi stavano rinchiusi o rigavano a fuoco lo loro membra anchilosate, provocando urla e strida orribili.

      Erano almeno una dozzina che s’accanivano con un sangue freddo ributtante, contro una trentina di prigionieri impacchettati fra le traverse di bambù, spaventosamente magri, tutti più o meno sanguinanti, colle vesti stracciate e gli occhi enormemente dilatati dal terrore.

      – Ma questa è una bolgia infernale! – esclamò finalmente Rokoff. – E oserebbero applicare anche a noi quelle torture? Parla, Fedoro!

      – No… non è possibile – rantolò il negoziante di tè, che aveva l’aspetto d’un pazzo. – No… una simile infamia contro di noi!…

      – Fedoro, che cosa possiamo tentare? Ci lasceremo torturare e assassinare in questo modo da queste canaglie? Noi siamo innocenti.

      – Non so che cosa risponderti, mio povero amico.

      – Ciò che ci succede è spaventevole! No, non può essere che un sogno! – gridò Rokoff.

      – È pura realtà, amico mio.

      – E non tenteremo nulla?

      – Non possiamo far altro che rassegnarci.

      – Ah! no, vivaddio! Io spezzerò questa gabbia maledetta e farò un massacro di tutti!

      – Non riuscirai ad abbattere le traverse – disse Fedoro.

      – Lo credi? Ebbene, guarda!

      Il cosacco, a cui il furore centuplicava le forze, afferrò due canne e le scosse con tale rabbia, da farle inarcare e scricchiolare.

      Un carnefice, che stava rigando le cosce ad un disgraziato prigioniero mediante una sbarra di ferro arrossata al fuoco, accortosi di quell’atto, accorse, vociando e minacciando.

      – Toccami, se l’osi! – urlò Rokoff, allungando le mani attraverso le canne.

      Quantunque l’aguzzino non avesse potuto comprendere la frase, vedendo quell’Ercole in quella posa, si era arrestato titubando.

      – Noi siamo europei! – gridò Fedoro. – Guardati, perché le Ambasciate ci vendicheranno e vi faranno uccidere tutti.

      Quella minaccia, forse più che

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