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un acuirsi delle lotte politiche con conseguenze disastrose per la popolazione del mondo romano di allora che si espandeva lentamente dalle Gallie fino all’Egitto. Battaglie tra politici ce ne sono sempre state e ce ne sono ancor oggi ma le rivalità, le nascoste alleanze e le guerre aperte di quest’epoca della storia romana sono diventate proverbiali e formano la materia di tanta letteratura (erudita e popolare). Chi non ha sentito delle lotte tra Mario e Silla, tra Cesare e Pompeo, tra Antonio e Ottaviano? Ma anche personaggi meno guerreschi, scrittori come Cicerone e Sallustio, per esempio, hanno dato il loro contributo a questi conflitti con violenti attacchi verbali, calunnie e intrighi di ogni sorta: Cicerone contro Cesare, Cicerone contro Antonio, Sallustio contro Cicerone e Sallustio dalla parte di Cesare.

      Come si può aver successo in politica? La ricetta è – allora come oggi – con denaro e alleanze. Chi disponeva di un sostanzioso patrimonio familiare poteva considerarsi fortunato. Ma la mancanza di mezzi propri non poteva frenare le ambizioni dell’uomo politico in-spe; una soluzione si trovava sempre: si poteva per esempio cercar di sposare una ricca vedova, oppure si facevano debiti. Nell’antica Roma il mondo della finanza era già molto progredito: a causa delle enormi ricchezze che venivano trasportate nell’Urbe dalle province, non c’era mancanza di mezzi finanziari che cercavano uno sbocco.

      Roma non poteva controllare soltanto con le armi un territorio che nel frattempo era cresciuto enormemente. Una brillante qualità della politica di Roma era la capacità di integrare i sovrani locali nel controllo dei loro popoli. Gli storici romani (non escluso Sallustio) vorrebbero farci credere che i popoli del Mediterraneo e dell’Oriente non desiderassero altro che diventare sudditi di Roma. È vero che la fama della cultura romana esercitava una grande attrazione su queste genti ma era soprattutto il più solido argomento della supremazia militare che costringeva i regnanti locali a cooperare. In fondo era un buon affare per tutti: i sovrani locali potevano continuare ad esercitare la loro autorità come riflesso della potenza romana e i romani godevano delle ricchezze di questi paesi con lo sfruttamento delle miniere d’oro e con l’esazione di balzelli onerosi. Roma è diventata famosa per la competenza militare e per le opere d’ingegneria (acquedotti! strade!) ma un’arte nella quale i romani erano veramente maestri era nel tirar fuori tributi dalle tasche dei popoli vinti. Già allora lo stato aveva scoperto i vantaggi della privatizzazione: invece di metter su un’enorme burocrazia, si affidava la riscossione delle tasse al settore privato. I contratti di appalto erano messi all’asta e schiere di affaristi cercavano di vincere questi lucrativi contratti. Per aumentare la loro efficacia i publicani si organizzavano in società finanziarie, le societates publicanorum.

      Gli abitanti delle province venivano salassati senza pietà; specialmente nell’Oriente la fonte di ricchezze era pressoché inesauribile. Plutarco ci racconta che la provincia d’Asia

       era afflitta da un’incredibile calamità: gli esattori delle tasse e gli usurai depredavano e asservivano i cittadini che erano costretti a vendere i loro nobili figli e le loro vergini figlie, le città dovevano vendere i doni sacri, i quadri e le statue degli dei.

      Ma ce n’era per tutti: gli esattori, gli amministratori romani e i senatori a Roma che facevano finta di non vedere; tutti si servivano alla stessa tavola. Ma a volte si trovava un proconsole come Lucullo che ordinò una moratoria dei debiti:

       Prima di tutto si potevano mettere in conto soltanto interessi che non superassero l’uno per cento al mese. In secondo luogo annullò gli interessi che superavano l’ammontare del debito e come terza misura, la più importante, stabilì che il creditore poteva esigere soltanto fino a un quarto del reddito del debitore.

      Erano soprattutto i popoli dell’Oriente dai quali si succhiava la più grande quantità di ricchezza. Ma ogni tanto il sovrano locale riusciva ad avere la meglio sui romani e non tralasciava l’occasione per impartire loro una solenne lezione. Uno di questi sovrani era Mitridate, re del Ponto. Egli ci fa sapere chiaro e tondo in una lettera riportata da Sallustio nelle sue Historiae:

       I romani hanno un solo motivo per portare la guerra su tutti i popoli e i re e cioè una sete insaziabile di potere e di ricchezza. ….Essi prima lusingano i re con la loro amicizia, li fanno guardiani del loro stesso popolo e poi li degradano con umiliazioni e spoliazioni sicché da re diventano i più miserabili schiavi.

      Roma dovette vedersela in tre guerre con questo sovrano finché a Pompeo riuscì di eliminarlo nel 63 a. C. Ma nella seconda guerra il legato Manio Aquillio cadde nelle mani di Mitridate il quale mise in scena uno spettacolo molto educativo per i romani, che poteva avere per titolo “Senza parole”. Egli fece trascinare il povero Aquillio per le strade di Pergamo tra il sollazzo della folla urlante e poi, come apice della manifestazione, gli fece versare in gola oro fuso. Aquillio era, per così dire, rimasto soffocato dall’oro.

      Può sorprendere quanto la letteratura latina sia pervasa da storie di debiti: giovani romani con brillanti prospettive che cadono nelle mani degli strozzini, suicidi a causa di debiti non pagati, perdita di posti lucrativi per via di eccessivi indebitamenti – reali o supposti. Nella storia delle elezioni a Roma la corruzione di coloro che si trovavano con l’acqua alla gola a causa dei debiti gioca un ruolo importante. Anche Sallustio, come vedremo, ha avuto problemi di debiti.

      Ma nella politica non si raggiuge granché se non si hanno solide alleanze. Oggi un uomo politico può contare sulla quantità dei sostenitori: chi ha esperienza nei mezzi di comunicazione di massa può far marciare migliaia di persone per le strade e portare anche milioni di elettori alle urne. Allora la qualità stava in primo piano: bisognava trovare sostenitori provenienti da una ricca famiglia, che preferibilmente avesse già dato alla patria qualche console e che potesse mobilitare anche un certo numero di clientes. Anche allora bisognava metter insieme un partito e nell’organizzazione di un partito Cesare era senza dubbio un maestro.

      Nei critici decenni tra Silla e Augusto (all’incirca dall’80 fino al 30 a. C.) i protagonisti della politica a Roma furono Pompeo, Catone, Cesare e Cicerone; Sallustio ha avuto un ruolo secondario ed ha avuto a che fare soprattutto con gli ultimi due, per lo meno stando a quel po’ che si deduce dalle scarse notizie degli storici. Diamo uno sguardo alle carriere di questi tre personaggi che hanno avuto ruoli molto diversi nella vita politica di allora.

      Sallustio e Cicerone ci presentano un curriculum abbastanza simile. Ambedue erano rampolli di famiglie benestanti del Centro-Italia che però a Roma non erano molto note e ambedue si sono conquistati un posto nella migliore società solo grazie alle loro qualità personali. I due sono oggi conosciuti per le loro opere letterarie ma avrebbero certo desiderato di diventare famosi anche per qualche atto di coraggio volto a salvare la repubblica. Cicerone fu effettivamente salutato come “salvatore della patria” per aver debellato la congiura di Catilina ma in seguito riuscì solo a infastidire il padrone di turno (che sia Cesare o Ottaviano) con i suoi appelli per una forma di governo ideale che non andava a genio a chi voleva semplicemente esercitare il potere. Nessuno dei due era un eroe, anche se Sallustio partecipò a diverse campagne al fianco di Cesare. I nostri poterono esercitare le loro eccezionali abilità retoriche ma, quando si trattava di afferrare il potere, dovettero cedere le armi alle vere volpi della politica.

      Cicerone era nato nel 106 a.C. ad Arpino, una cittadina della Ciociaria. Questa regione al sud-est di Roma, da dove proveniva anche mia madre, ha preso il suo nome odierno dalle “cioce”, le calzature che i contadini portavano ancora qualche decennio fa. (Le “cioce” consistono in una suola di cuoio, o anche ritagliata da copertoni di pneumatici, fissata al piede e alla gamba da lacci). Cicerone lottò per tutta la vita per un ideale classico della repubblica, una repubblica come la sognavano parecchi romani ma che non è mai esistita nella realtà. Le sue ambizioni politiche gli procurarono a volte importanti incarichi (fu console nel 63) ma un’influenza duratura sulla politica non l’ha avuta.

      Cesare invece veniva da tutt’altro mondo. Era un rampollo della famiglia dei Julii, un’antica stirpe patrizia che si vantava di discendere da Enea. L’istinto politico e la spregiudicatezza di Cesare sono diventati proverbiali; già al principio della sua carriera aveva scoperto le due chiavi per ottenere e mantenere il potere: soldati e denaro. In tutte le sue attività politiche e nelle campagne militari la sua preoccupazione era di mettere insieme

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