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      Adara nascose un altro sorriso. A malapena. “Una fonte di dolore?”

      Garret annuì, solenne. “Ho iniziato ad alzare presto il mio grosso sedere dal letto e mi sono allenato prima delle prove mattutine di violino. Ho eliminato le ciambelle, le patatine e le caramelle e ho imparato ad apprezzare le verdure, il che è stato più difficile che suonare Bach, tra l’altro. Ma non credo nella resa.”

      Non le importava quanto lui fosse determinato, nell’inseguirla, lui avrebbe smesso. Lei se ne sarebbe assicurata. “È questo che ti ha fatto desiderare di essere un pirata? Per sfuggire a tutte quelle ragazze meschine navigando per i sette mari e suonando il tuo violino mentre pulisci il ponte? Non posso credere che tu abbia lasciato gli stivali e gli anelli d’argento durante la tua fuga e nessun dente d’oro? Un fallimento totale”.

      Garret la fissò un momento poi gettò la testa indietro e rise, un suono che sembrò riempire il parco ed espandersi nel cielo.

      Per un secondo, il respiro di lei si bloccò e, per quanto lo volesse, non riuscì a voltarsi. Lui era la gioia personificata, pura e disinteressata, assolutamente accattivante.

      La risata di Garret svanì ma il suo sorriso no. Si sistemò il cappello e sospirò. “Ah, mi ricordi com’è tornare nel mondo reale!”

      Adara distolse lo sguardo. “Al contrario dell’Isola che non c’è?”

      “L’Isola che non c’è è la descrizione esatta dei miei ultimi tre anni. Le giornate erano tutte uguali finché non sono riuscito a ricordare l’ultima volta che avevo visto la mia famiglia. Ho composto la mia ultima canzone prima di andare in tour.” Garret abbassò lo sguardo sulle sue scarpe, i suoi occhi si strinsero mentre il suo sorriso si affievoliva. “Nella sfilza di pubblico anonimo e feste vuote con gente ancora più vuota, ho avuto un momento di chiarezza. Se non fossi sceso dalla giostra, almeno per un po’, mi sarei bruciato. Stavo realizzando il mio sogno ma non vivevo veramente.” Garret sollevò la testa e incontrò lo sguardo di Adara. “A volte, devi allontanarti dalla folla e concentrarti sul singolo. Così sono tornato a casa ed eccomi qui.”

      Quella sensazione svolazzante nel suo cuore si agitò di nuovo debolmente e lei la contrastò rivolgendogli uno sguardo freddo. È questa la sessione di terapia che Gia voleva per me con il dottor Violinista? Non sta succedendo. “Qualunque cosa ti abbia detto Gia, io non sono il progetto di nessuno. Non ho bisogno di essere aggiustata.”

      “Non ti aggiusterei per niente al mondo,” disse lui dolcemente, senza più umorismo. “Sono le nostre rotture che ci rendono ciò che siamo. Senza i pezzi in frantumi, la nostra luce non filtrerebbe mai al resto del mondo.”

      Il battito nel petto di lei aumentò, fuori portata. Serrò i pugni, per ancorarsi alla terra cui apparteneva, dove era al sicuro.

      “Il che mi ricorda,” disse lui, “a che ora è il tramonto?”

      Strano cambio di argomento, ma se si allontanava dalle cose rotte e dalle storie di vita, ci stava. “Immagino alle sei meno un quarto.”

      Lui annuì. “Va bene le sei meno un quarto?”

      “Per un’altra corsa?” Adara guardò l’orologio, fingendo che lui non stesse parlando della loro scommessa. Si rifiutava di chiamarlo appuntamento. “Certo.”

      “Ti piace fare la difficile, vero?”

      “Fare la difficile mantiene il mio spazio personale libero, come piace a me.” Lei inarcò un sopracciglio vedendo il ghigno di lui. “Di solito.”

      “Deve richiedere molta energia, tenere la gente lontana.”

      “Tonnellate.”

      “Faresti meglio a fare scorta di carboidrati, ragazza.” La urtò con la spalla, facendole fare un passo di lato. “Ne avrai bisogno”.

      Adara riacquistò l’equilibrio e si concentrò sugli abeti famigliari che costeggiavano il sentiero, segno che il parcheggio era vicino. Grazie a Dio. Per ragioni che andavano oltre la sua comprensione, Garret si rifiutava di essere ignorato. Le piacevano le altre persone, ma i legami più che casuali erano rari, e solo Joey l’aveva spinta ad abbandonare la sua solitudine. Con Garret, le sembrava di approdare accidentalmente sulla terraferma dopo aver fluttuato nel vento, e qualunque cosa significasse, non poteva tornare a essere parte di qualcun altro. Faceva troppo male quando il pezzo più importante veniva a mancare.

      Gli alberi si aprivano sul parcheggio vuoto. Il cielo incombeva basso, le nuvole si contorcevano in forme minacciose modellate dalla mano di un vento rastrellante e l’oscurità ombreggiava la neve, rubandone la luminosità. Era ora di tornare a casa, il più velocemente possibile, il più lontano possibile da Garret Ambrose.

      “Lunedì inizieremo a lavorare insieme.” Il tono di lui era ragionevole e logico. “Dovremmo prima conoscerci meglio.”

      “Ne so abbastanza di te.” Adara scivolò più velocemente nella neve. Aveva aspettato con lui più del necessario. Poteva tornare a casa da solo.

      Garret le rivolse uno sguardo da cucciolo indifeso, la sua zoppia sembrava migliorare. Un uomo insopportabile.

      Ma farla finita era meglio che dargli un altro motivo per tormentarla. “Bene. Cinque e quarantacinque. Cena. Solo questo.”

      “Per essere chiari, stasera cinque e quarantacinque. La cena. L’inizio...” Garret usò la stessa enfasi di Adara, con l’eccezione delle ultime due parole che proferì con un tono delicato e seducente.

      Adara sbuffò, il suo respiro si annebbiò nell’aria. “E tu dici che io sono difficile?”

      “Ostinata,” rispose lui senza problemi, cercando qualcosa nella tasca della sua giacca. “Completamente diverso.” Tirò fuori una penna e un pezzo di carta e scarabocchiò qualcosa.

      “Porti sempre della carta e una penna quando corri?” Strano.

      “Certamente. Quando arriva l’ispirazione, bisogna essere preparati.” Con dita agili, Garret piegò la carta in un origami a forma di barchetta e gliela mise in mano.

      “Non ho bisogno del tuo numero di telefono.”

      “Non è il mio numero di telefono.” Anche se Adara lo conosceva appena, riconosceva un sorriso subdolo quando ne vedeva uno.

      La giovane spiegò il biglietto. ‘GAA’ era impresso in basso in argento e piccoli numeri ordinati occupavano il centro. Quarantasette. Non aveva alcun senso. “Cos’è questo?”

      “Qualcosa che devi capire.” Garret continuò a camminare verso il marciapiede, con aria compiaciuta. “Ho sentito che ti piacciono i puzzle.”

      Adara strinse i denti. Odiava i puzzle, soprattutto perché non era capace a farli ed era troppo orgogliosa per ammetterlo. In qualche modo, si sarebbe vendicata con Gia per aver rivelato dettagli personali non autorizzati. Le buone intenzioni non significavano nulla.

      “Non preoccuparti, Adara. Se ti blocchi, ti darò un suggerimento.” Garret si voltò per affrontarla, indietreggiando all’indietro di qualche passo, abbastanza a lungo da muovere le sopracciglia. “Anche se potrebbe costarti.”

      Adara stropicciò il numero in mano e lo mise in tasca. Si mise a correre e lasciò lui e le sue risate alle spalle. Se solo lui l’avesse sfidata a una gara. Così non sarebbe dovuta uscire con lui quella sera. Sollevò il viso verso le scaglie di ghiaccio che cadevano dal cielo scuro. D’altra parte, convincerlo a puntare altrove durante la cena sarebbe stata una sfida più soddisfacente.

      E quella era una sfida che non avrebbe perso.

      Capitolo Sette

      Dopo un’estenuante giornata di calcoli, Adara si guardò allo specchio del bagno, gli occhi iniettati di sangue per aver fissato i conti, un prezzo che avrebbe pagato di nuovo per i progressi che aveva fatto. Non era l’ideale, ma aveva un piano per salvare il suo lavoro se il bilancio fosse

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