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sua defunta moglie. La prossima donna che avrebbe baciato avrebbe avuto lo stesso titolo e la stessa responsabilità. Era il suo destino. Uno che accettava.

      Leo si voltò e guardò la strada. Il traffico era diminuito nei pochi minuti da quando avevano parcheggiato. I veicoli ancora una volta si muovevano prossimi al limite di velocità. Tranne che ai semafori e agli attraversamenti pedonali.

      All’incrocio davanti a lui, una donna abbassò gli occhi verso il suo telefono. I pedoni si erano allontanati dal centro della strada ed erano al sicuro sul marciapiede. Ma quella donna non prestava attenzione alla mano rossa che, nel semaforo, le faceva segno di fermarsi. Era troppo concentrata sul cellulare.

      Un furgone svoltò l’angolo, procedendo a forte velocità. La donna continuava a guardare in basso. Dall’angolo in cui lei si trovava, Leo capì che era nel punto cieco dell’autista. Nessuno dei due vedeva l’altro sulla sua strada.

      Forse fu il sangue guerriero dei suoi antenati moreschi. O lo spirito avventuroso dei suoi antenati Conquistadores. Oppure fu l’arroganza degli aristocratici francesi nel suo albero genealogico a prendere il sopravvento. Qualunque cosa lo mise in moto, Leo non pensò. Si limitò ad agire.

      Si precipitò intorno alla macchina e in strada. Con nemmeno un secondo da perdere, mise le braccia intorno alla donna e la tirò a sé. Una frazione di secondo più tardi, il paraurti del furgone occupò lo spazio in cui lei si era trovata. La forza dello strattone di Leo e l’impatto del corpo di lei che si schiantava contro il suo li fece finire entrambi a terra.

      La donna gridò di sorpresa. I freni del furgone stridettero in segno di protesta. Leo grugnì mentre cadeva sulla schiena con la donna sopra di lui.

      «Oh, mio Dio» sussurrò lei. «Oh, mio Dio. Oh, mio Dio.»

      Alzò lo sguardo verso il furgone che era a meno di mezzo metro da loro. Abbassò lo sguardo su Leo che era disteso sotto di lei. Magari era stata l’esperienza di premorte, ma Leo avrebbe potuto giurare di aver visto delle stelline che le scintillavano sopra la testa.

      «Ehi, voi due piccioncini, prendetevi una stanza e spostatevi dalla strada» gridò loro l’autista del furgone prima di girare le ruote e aggirare i loro corpi intrecciati.

      Il veicolo ripartì con un’esplosione di gas di scarico. Leo coprì il viso della donna con una spalla per proteggerla da quei fumi pestilenziali. Quando l’aria si schiarì, rimase a fissare gli occhi marroni più abbaglianti e profondi che avesse mai visto. Erano di un marrone così scuro da sembrare nero, ma c’era una luce al centro di essi che si irradiava verso l’esterno. Per un momento, Leo rimase stordito.

      «Uccisa da un drago» disse lei.

      Lui abbassò gli occhi sulle sue labbra. Non portava il rossetto, probabilmente solo un lucidalabbra, visto che erano lucide e profumavano leggermente di menta e ciliegie. «Chiedo scusa?»

      «Sono stata quasi uccisa da un drago» rispose lei, poi guardò in direzione del furgone in partenza. Fu allora che Leo notò il drago verde sul fianco del mezzo, che descriveva nel dettaglio i servizi della Lavanderia a Secco Dragon. «Lei mi ha salvato» gli disse. «Il mio cavaliere con l’armatura scintillante.»

      «Non sono un cavaliere.»

      «Il mio libro dice così.»

      Gli sorrise, e lui ancora una volta rimase senza parole. Il suo sguardo si fermò di nuovo su quelle labbra. E poi, meraviglia delle meraviglie, lei fece sgattaiolare la lingua rosa fuori dall’angolo della bocca per inumidirsi le labbra già lucide. La fame di Leo si moltiplicò di dieci volte.

      Ci volle una serie di clacson per riportarlo al presente e al pericolo che ancora li affliggeva. Erano ancora in mezzo alla strada con le auto che sfrecciavano per passare accanto ai loro corpi avvinghiati.

      La sua damigella si sollevò facendo leva sul suo petto per raddrizzarsi. Poi si chinò e tese la mano a Leo. Lui fissò quell’offerta per un secondo intero, chiedendosi come fosse successo che i ruoli si erano invertiti.

      Alla fine, prese la mano di lei tra la sua, ma non approfittò della forza di quella ragazza per rimettersi in piedi. Si alzò da solo. Mentre lo faceva, si crogiolò nel tocco della pelle di lei contro la sua.

      Si spostarono sul marciapiede, ancora mano nella mano. Troppo presto, la ragazza lasciò la presa. Poi prontamente gli diede una pacca sulle gambe dei pantaloni, pericolosamente vicino ai gioielli della corona.

      «Oh, no» gli disse. «Ho rovinato il suo vestito.»

      Leo abbassò lo sguardo per vedere che c’erano delle macchie sul lato della giacca e su una delle gambe dei pantaloni. Una donna non lo toccava da tanto tempo. Anche se lo stava spazzolando con un po’ troppa intensità.

      «Ero di fretta» gli disse, concentrandosi sui granelli di sporco e sudiciume sul tessuto dei suoi vestiti. «Stavo cercando di ordinare qualcosa da mangiare sul telefono. Sono in pausa pranzo e non ho molto tempo. Ecco perché stavo guardando il cellulare. E ora sto parlando a vanvera. Quella è la sua auto?»

      Leo aveva problemi a tenere il passo. Guardò la donna, poi il cellulare che lei ancora stringeva in mano, di nuovo lei e poi la sua macchina. «Sì.»

      «Lo sa che non può parcheggiare lì? Le faranno una multa.»

      Lui scosse la testa. «Immunità diplomatica.»

      «Oh. Oh, conosco quella bandiera. È la bandiera di Cordoba.»

      L’arancione, il rosso e il blu rappresentavano i diversi paesi da cui proveniva la maggior parte della gente di Cordoba. Con la bandiera del suo paese esposta in modo ben visibile e orgoglioso sull’auto, Leo disse addio al suo anonimato.

      «Lavora per il principe?» gli chiese.

      Senza pensare, la verità gli uscì di bocca. «No, sono il re.»

      «Oh, lavora per il re? Che cosa eccitante!»

      Chiaramente, lei lo aveva frainteso. Doveva essere di nuovo l’accento. Ma Leo decise di approfittarne. Un piccolo brivido lo percorse all’idea che il suo anonimato fosse stato ripristinato. «Non è per niente eccitante. Il re si occupa degli affari di Stato. Agricoltura, tasse, immobili.»

      «Ma anche lei vive nel castello? Mi piacerebbe saperne di più. Posso offrirle una tazza di caffè e una fetta di torta come ringraziamento per il salvataggio?»

      Una tazza di caffè da una bellissima sconosciuta? «Certo.»

      Mentre si avvicinavano alla porta del negozio di torte, Leo vide che Giles lo osservava accigliato. Fece segno all’uomo di tenere la bocca chiusa. Giles lo fissò, e Leo poté sentire lo sbuffo dall’altra parte del locale. Ma, per una volta, l’uomo fece come gli era stato ordinato e tenne la bocca chiusa. Anche se tirata in una linea di chiara disapprovazione.

      «Io mi chiamo Esme, a proposito.»

      «Io Leo.»

      Capitolo Quattro

      Nonostante tutte le favole, i romanzi rosa e i film di Hallmark che Esme divorava, non si era mai considerata il tipo da damigella in pericolo. Ma, ragazzi, aveva funzionato benissimo! Esme era caduta tra le braccia di un vero eroe.

      Tecnicamente, si era schiantata contro di lui mentre faceva la cosa più innocua e stereotipata che una millennial americana potesse fare. Ma chi se ne fregava, visto che aveva dato buoni risultati, e lei sarebbe sopravvissuta per raccontare quella storia. E che storia, si stava accingendo a essere!

      Leo le tese il braccio in un perfetto angolo retto, da galantuomo. Proprio come nei film d’epoca della BBC che lei da bambina guardava alla televisione pubblica. Fu presa dal panico per un secondo, incerta sul da farsi.

      Doveva infilargli la mano sotto il gomito e stringere le dita nell’incavo? O appoggiargli la mano sull’avambraccio, posando leggermente le dita? Che cosa aveva fatto l’attrice che interpretava Elizabeth con Mr. Darcy in Orgoglio e Pregiudizio? Non nel film di due ore con

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