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con facilità. Aveva visto suo fratello farlo molte volte.

      Leo diede le spalle alla finestra e sollevò gli appunti per il suo discorso. Sapeva che migliaia di persone si affidavano a lui per il proprio sostentamento, quindi faceva il suo dovere. E si sarebbe pure trovato una nuova moglie. Prima o poi.

      Non poteva chiedere di uscire a una donna qualunque. Proprio come era capitato per il primo matrimonio, anche il secondo sarebbe stato un affare. Non un affare di cuore, ma uno da cui dipendevano gli interessi nazionali.

      «La duchessa spagnola, Teresa d’Almodovar, ha ottime referenze. È giovane, istruita, si occupa di beneficenza, e le donne della sua famiglia sono ottime fattrici.»

      Leo sarebbe rabbrividito se non avesse sentito quella litania anche per la sua prima moglie. Isabel aveva tutte quelle stesse qualità, ed erano andati d’amore e d’accordo. Ma la cosa era finita lì.

      Non aveva mai sperimentato la passione. Non sarebbe mai successo. Non era destino, per un re.

      Leo diede un’ultima occhiata ai suoi appunti. Li conosceva tutti a memoria. Nel suo destino c’era la stabilità economica e una moglie che avrebbe soddisfatto le esigenze del suo paese e gli avrebbe dato un erede. Se fossero riusciti ad andare d’accordo, come avevano fatto lui e Isabel, sarebbe stato un vantaggio, ma non un requisito.

      «Sono passati due anni» gli ricordò Giles. «Un tempo sufficiente per un lutto rispettoso. Cordoba ha bisogno di un erede.»

      «Ho già un’erede.»

      «Sapete che la costituzione del nostro paese è patriarcale.» Giles alzò la mano prima che Leo potesse obiettare. «Non abbiamo né il tempo né il supporto per cambiare quella legge. Dovrete trovare una nuova regina e generare un erede maschio. In caso contrario... non voglio prendere in considerazione l’alternativa.»

      Come se li avesse sentiti parlare di lui, l’alternativa irruppe nella stanza. Una versione leggermente più giovane e molto più disordinata di Leo aprì la porta e si precipitò dentro la stanza.

      I lembi della camicia di Alex erano sbottonati. Gli mancava la cintura. Il colletto era storto e con visibili tracce di rossetto impresse sul tessuto bianco. Probabilmente Alex si era fatto strada tra la baldoria di Times Square.

      Leo non invidiava suo fratello, né il suo comportamento da playboy. Invidiava il fatto che potesse scegliere chi amare. Non che suo fratello optasse per una scelta sola. Perché farlo quando poteva averle tutte?

      «Buongiorno, Vostra Altezza, è una bellissima mattina di sole» disse Giles, ponendo l’accento sulla parola “mattina”.

      «È già mattina? Speravo di riuscire a fare un sonnellino prima che sorgesse il sole.» Alex si riparò gli occhi dalla luce delle prime ore del giorno. «Troppo tardi. Eccolo.»

      «Non hai chiuso occhio?» gli chiese Leo.

      «Oh, un po’ ho dormito. Solo non nel mio letto.» Alex si tolse la giacca. E, in maniera maleducata, la lasciò cadere sul pavimento, sicuro che qualcuno l’avrebbe raccolta. «Oggi non hai bisogno di me, vero? Nessun nastro da tagliare? Nessuna ereditiera da intrattenere? Nessun giornalista da distrarre con il mio ghigno follemente fotogenico?»

      «In realtà», disse Leo, «ho bisogno di te. Hai promesso di portare fuori Pen, oggi.»

      Alex sbatté le palpebre, come se si stesse svegliando da un lungo sonno. «L’ho fatto?»

      Leo annuì. «Dovete andare in una scuola locale. Voleva visitare una classe dell’asilo.»

      «Bene.» Alex sospirò drammaticamente e si passò una mano sulla ricrescita della barba. «Per quella piccoletta non posso venire meno alla parola data. Ho solo bisogno di un pisolino. E di una doccia. E di un cambio di vestiti. E poi sarò come nuovo.»

      Alex si accasciò sul divano. Appena chiuse gli occhi, si addormentò. Quell’uomo aveva sempre avuto la capacità di scivolare in un sonno beato ovunque posasse la testa. Era facile, quando non ti importava di niente e nessuno al mondo.

      Leo rimise in ordine le sue note e si infilò i fogli nella tasca del cappotto. Prima di andarsene, fece capolino nella stanza di sua figlia. Lei era la piccola donna a cui, per prima, andava la sua lealtà. A parte il suo dovere verso il popolo, sua figlia era la sua ragione di vita.

      La principessa Penelope dormiva pacificamente nel letto della camera d’albergo. I suoi capelli scuri si allargavano a ventaglio sulla federa bianca. Sul comodino c’era un libro di frazioni.

      A differenza della maggior parte dei bambini di cinque anni, la sua Pen preferiva addormentarsi facendo matematica. Era un tratto che aveva ereditato da sua madre. Isabel aveva studiato ingegneria all’università, anche se sapeva che non le sarebbe tornata utile nei suoi doveri di regina. Ma farlo l’aveva resa felice. I numeri facevano lo stesso con la sua bambina, quindi lui era più che contento di impugnare una matita e fare algebra prima di coricarsi, al posto di leggere una storia.

      Perdere sua madre in così giovane età era stata dura, per la sua Penelope. Avrebbe dovuto lasciarla a casa, ma odiava starle lontano. Lei era il vero amore della sua vita.

      Il suo angelo dormiva profondamente. Non osò svegliarla, anche se voleva darle il buongiorno prima di dare il via ai suoi impegni. Leo stava iniziando presto la sua giornata, e non voleva che lei saltasse il programma fatto. Specialmente con lo zio messo fuori combattimento nell’altra stanza.

      Penelope meritava una madre e lui le avrebbe trovato la migliore possibile. Quello sarebbe stato il suo primo criterio di scelta. Non un interesse economico per il suo paese: Leo si sarebbe concentrato sull’interesse di sua figlia. Con quella determinazione, uscì per guadagnarsi favori per il suo paese e trovare una madre per sua figlia.

      Capitolo Due

      «Il Principe Azzurro sguainò la spada e corse a salvare la principessa, ma in quel momento...»

      «Ma... signorina Pickett?»

      A quell’interruzione, Esmeralda Pickett alzò lo sguardo dal libro illustrato. Non era la prima volta che quella storia veniva interrotta. Si era fermata praticamente a ogni pagina del libro per rispondere a una domanda o offrire una spiegazione ai bambini della sua classe dell’asilo, che la guardavano con occhi brillanti. Era orgogliosa di quel gruppetto curioso. Le loro piccole menti erano come spugne, affamate di nuove conoscenze.

      «Signorina Pickett, perché la principessa non può sguainare da sola la spada?» Aubrey Thomas arricciò il nasino all’insù mentre cercava di venire a capo del suo problema con la favola. «Hai detto che quello non era il primo principe che cercava di salvarla. E sono tutti nella tana del drago. Quindi ci sono altre spade per terra. Perché lei non ne prende una da sola?»

      Quello era un ottimo ragionamento, specialmente da parte di una bambina di cinque anni che Esme spesso sospettava ne avesse cinquanta. Tutt’intorno a Esme, altre dieci testine dondolavano e si inclinavano considerando quella possibile svolta nella storia. Non cercavano subito la risposta nella maestra. No, discutevano tra di loro le possibilità e i fattori in gioco.

      Avevano ascoltato attentamente le prime due pagine. Le interruzioni erano iniziate quando la principessa aveva disobbedito al padre ed era andata nel bosco. I giovani studenti di Esme erano rimasti a bocca aperta e con gli occhi spalancati, come se non avessero mai preso in considerazione l’ipotesi di non seguire le indicazioni dei propri genitori.

      Erano rimasti senza fiato e aggrappati al filo della storia quando la principessa aveva accettato il cibo da uno sconosciuto. Kurt Willis e Carla Barrow avevano interrotto il racconto discutendo sui pericoli di accettare da qualcuno che non si conosce caramelle o qualsiasi altra cosa che non fosse ben sigillata e con gli ingredienti e gli allergeni chiaramente etichettati, in modo che mamma e papà potessero leggerli.

      Ma la parte migliore l’aveva fatta Tracey Chen. Aveva incrociato le braccine sul petto in preda all’orrore, facendo ondeggiare i codini quando Esme aveva descritto il cattivo della storia come una strega malvagia e aveva mostrato

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