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grande”.

      Piangevano tutti. I circostanti, il voto del moribondo adempiendo, si allontanarono dalla stanza; se non che ora l’uno, ora l’altro senza mostrarglisi, gli resero gli uffici estremi, finchì, aggravandosi il male, il giorno appresso 22 giugno 1527, quando pare che la campana pianga la luce scomparsa dal nostro emisfero, spirò la sua grand’anima Nicolò Machiavelli.

      Capitolo Terzo

      Il papa e l’imperatore

      Seduti entrambi, Clemente VII da un lato, Carlo V dall’altro di una lunga tavola coperta di velluto cremesino a frangie d’oro, con le insegne della Chiesa ricamate in oro; e sovr’essa carte e pergamene di ogni maniera, brevi, diplomi e capitoli quivi spiegati, quasi museo e satira delle scambievoli loro insidie, alcuni col suggello di Spagna, alcuni colle armi dell’impero, parte con le palle dei Medici, parte ancora con la immagine di san Pietro che pesca e invano rammenta al superbo pontefice la povertà della chiesa primitiva di Cristo. L’imperatore continuava dicendo:

      “La Francia è giglio fragile, e la mia aquila lo ha già sfrondato; se non m’ingannava un mal genio, tu a quest’ora saresti, o Francesco, uno scudiero nella mia corte imperiale; la mezza luna non tanto scintilla sublime nei cieli che non valga a raggiungerla il volo della mia aquila: leopardo inglese, dacché lasciasti comprarti le branche, apparecchiati a darmi la tua corona in cambio dei miei ducati; e tu, san Pietro, sappi che la mia testa ì capace di portare ancora… la tiara… Perché no? Massimiliano imperatore voleva farsi papa…”

      “La morte! la morte!” – gridò più alto il pontefice negli orecchi all’imperatore.

      “La morte! ” – proruppe Carlo V, – “che fa a me la morte? I codardi soccombono a questo pensiero, gli animosi lo portano come una corona di fiori. È meglio lasciare l’opera interrotta che non incominciata… I monumenti più grandi che il mondo conosca si devono al pensiero della morte – parlo delle Piramidi. La morte sta nelle mani di Dio, l’uso della vita in quelle dell’uomo. La mia anima abbisogna che la testa del suo corpo si posi nella vecchia Europa, il tronco in Africa e in Asia, i piedi in America. Io non anche percorsi la curva ascendente della mia vita, non giungo ancora a trent’anni; e se in questo punto mi toccasse la morte, come Cesare Augusto potrei domandare ai miei amici, ai miei nemici, a voi stessi: parvi ch’io abbia ben sostenuta la mia parte nel mondo? Le imprese da me fino a questo punto operate, se non possono la mia fama a quella di Alessandro Magno anteporre, bastano ad avvilupparmi in un sudario che mi salvi dal verme dell’oblio. Se adesso io morissi, il cuore mi assicura che gli uomini direbbero: meritava vivere di più. Papa Clemente, se voi moriste adesso, che cosa pensate il mondo fosse per dire di voi? Lui è vissuto troppo poco, o è vissuto anche troppo?”

      Clemente tacque. Guardato prima con molta diligenza un taccuino che si cavò dal seno di sotto alla mezzetta, rispose:

      “Più nulla”.

      “A quando l’incoronamento?”

      “I vostri ufficiali di cerimonie possono concertarne il tempo e le forme col maestro del sacro palazzo”.

      “Addio, dunque, Beatissimo Padre”.

      E Carlo disparve, le porte si chiusero, Clemente si trovò solo nella stanza. Allora, declinato il capo sul camino, meditò per lunghissima ora: all’improvviso si muove e si pone davanti alla sedia che occupò l’imperatore durante il colloquio:

      “Carlo d’Austria!” – cominciò a dire alzando il dito e comprimendolo sopra l’angolo della tempia destra, “le libertà dei comuni di Spagna, i privilegi delle città dei Paesi Bassi, le prerogative degli Stati Germanici ti avviluppano dentro rete validissima. Tu ti sforzi con ogni ingegno per divorarli; bada, Maestà, il tarlo rodendo si scava la tomba. La tua potenza non uguaglia il tuo orgoglio, i vasti concetti della tua mente non posano sopra anima in proporzione vigorosa; se pieno di forza rassomigli al sole di estate, come quel sole ogni giorno il tuo spirito tramonta. Maestà, tu mi hai supplicato per ottenere dalle mie mani una corona; ah semplice che fosti! io sarei venuto in capo al mondo per offrirtela; prostrati, Maestà, umiliati, Perché mi tarda importi questa corona sul capo; io la circonderò di punte invisibili e angosciose, le quali ti penetreranno nel cranio scompigliandoti il pensiero, turbandoti del continuo la coscienza. Io ti adatterò la corona sul capo come il collare al collo dello schiavo; che importa a me di cingertene il collo, la mano, il piede o la testa? Non per questo tu diventi meno servo alla chiesa romana! Affrettati a prostrarti, Maestà: io m’innalzerò tanto, quanto tu l’abbasserai; e allorchì, Maestà, avrai baciato la polvere dei miei calzari, ti travaglierai indarno per dominarmi sul capo. Rendimi grande con la tua viltà e in processo di tempo se vorrai abbattere l’idolo che tu stesso avrai fatto grande, o non ci riuscirai, o rimarrai infranto sotto la rovina di quello”.

      Capitolo Quarto

      La incoronazione

      Finalmente il santo padre cinse a Carlo le chiome della corona imperiale. Carlo allora, giusta le formalità, si prostrava curvandosi al bacio dei piedi santi. Era però convenuto che il papa non gli lascerebbe compiere l’atto, e rilevatolo a mezzo, lo avrebbe stretto tra le braccia e baciato nel volto. Ma come resistere alla compiacenza di vedersi innanzi prostrato un signore di tante provincie? Non tutti i giorni si trovano imperatori da rinnovare tale ossequio; e poi, Clemente lo aveva già detto, si sarebbe di tanto rialzato il sacerdozio quanto abbassato l’impero. Si dimenticava pertanto del convenuto: il coronato stette lunga pezza nell’attitudine dello schiavo: in quel punto la corona gli pesò sul capo come se fosse stata una montagna; allora gli parve che il mondo, poc’anzi da lui sorretto nella mano, adesso di tutto il suo peso gli gravitasse sul corpo: come il serpente della Scrittura, lui si nudrì di cenere e la sentì amara, senza misura amara; sicché il suo cervello, compresso dal pentimento, dalla umiliazione e dalla rabbia, stillò una goccia di sudore, la quale, come quella dell’anima dannata dello scolare apparsa al suo maestro di filosofia, secondo che racconta frate Jacopo Passavanti[6] nello Specchio della vera penitenza, avrebbe avuto virtù di traforare da una parte all’altra con insanabile piaga i piedi del pontefice, se per avventura ci fosse caduta sopra.

      Fuori del tempio il popolo urlava, insaniva, fremeva a guisa di baccante scapigliata; Perché nessuna scintilla d’intelletto gli balenasse su l’anima, qui ì pane, qui copia di vino, camangiari e giullari. Sopra una colonna di marmo stava l’aquila imperiale; la quale da uno de’ suoi becchi versava vino rosso, dall’altro vino bianco, e giù intorno alla base della colonna vedevi prostesi uomini deturpati da oscena ubbriachezza. Sicché l’Alamanni[7] a questo spettacolo ebbe a dire: Ecco l’aquila imperiale rende oggi a spiluzzico alla gente italica il sangue che loro bevve a lunghi sorsi in tanti anni e le lacrime che le fece in copia versare; ma gliele rende stemperate nel veleno della stupidità.

      Ahi! popolo, io che ho viscere di umanità e sono parte di te, conosco le tue miserie e le compiango. Bevi, procurati un sonno uguale alla morte; le tue gioie consistono nel non sentire i tuoi dolori. Ora tu sei condotto in piazza, come l’orso ammansito, per sollazzare i tuoi sovrani padroni.

      Dalle finestre, dai terrazzi lui ordina che ti siano gettati pane e carne. Potessi cibarti per un anno e approvigionarti lo stomaco, come la cittadella che teme l’assedio, saresti meno infelice; ma domani l’insolito cibo ti recherà molestia, forse anche la morte. Feste, forni e forche; ecco la somma dei paterni argomenti con i quali ti governano i tuoi signori. Domani tornerai a logorarti nelle consuete officine, a bagnare di sudore i solchi dei campi; quivi travagliati da mattina a sera, e l’opera delle tue mani, il sudore della tua fronte devotamente consegna ai re e ai sacerdoti tuoi. Questi ti lasceranno la vita, ti lasceranno un pane, il cielo che ti copre e il sole che ti scalda… o che non basta? Indiscreto! Via, ti lasceranno tanto spazio di terra da riporci dentro le tue ossa, perché non le rodano i cani, ed ancora perché morto tu col fetore non gli offenda dopo che vivo tanta recasti loro gravezza e molestia.

      Capitolo Quinto

      Papa Clemente VII

      Clemente papa ora se ne sta ridotto nella stanza più riposta del suo palazzo:

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<p>6</p>

Jacopo Passavanti (1302–1357) – uno scrittore e architetto italiano

<p>7</p>

Luigi Alamanni (1495–1556) – un poeta, politico e agronomo italiano