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per trattare una ragazza che aveva vissuto le esperienze di Hannah. E dato che la dottoressa Lemmon già conosceva profondamente parte della storia famigliare della giovane, era decisamente la scelta più logica.

      Dopotutto era stata la dottoressa Lemmon ad aiutare Jessie a gestire la realtà che suo padre fosse il noto serial killer Xander Thurman. Era stata la dottoressa Lemmon ad accompagnarla attraverso gli incubi e l’ansia generati dall’aver assistito all’assassinio di sua madre per opera di suo padre, quando aveva solo sei anni. Era stata la dottoressa Lemmon a indurla ad aprirsi e a rivelare che era stata abbandonata da lui in un capanno in mezzo alla neve, destinata a morire, intrappolata per tre giorni accanto al cadavere in putrefazione della donna che chiamava mamma. Era stata la dottoressa Lemmon ad aiutarla a recuperare la sicurezza di poter affrontare suo padre quando era rientrato nella sua vita, ventitré anni più tardi, interessato a convertirla e trasformarla in un’assassina che operasse insieme a lui, o a ucciderla se non avesse accettato.

      La donna era tra i terapeuti l’unica ovvia scelta, per poter lavorare con la sua sorellastra, che aveva in comune con lei lo stesso padre e incubi di simile brutalità. Solo pochi mesi prima, Thurman aveva rapito Hannah e i suoi genitori adottivi e aveva costretto la ragazza a guardare mentre li assassinava. Aveva quasi ucciso anche Jessie davanti ai suoi occhi. Solo la loro capacità di pensare rapidamente e il loro comune coraggio avevano permesso alle due donne di girare le carte in tavola e ucciderlo.

      Ma anche dopo questo, il trauma di Hannah non era finito. Solo pochi mesi dopo la morte dei suoi genitori adottivi, un altro serial killer di nome Bolton Crutchfield, un seguace di suo padre con una certa fissa per Jessie, aveva ucciso i genitori affidatari della ragazza davanti a lei e l’aveva poi rapita. L’aveva tenuta per una settimana nello scantinato di una casa isolata, cercando di indottrinarla, di modellarla a suo piacimento insegnandole a uccidere come Thurman e lui stesso.

      Lei era sopravvissuta anche a quell’orrore, salvata da Jessie e da un furbo doppio gioco ideato da lei stessa. Bolton Crutchfield era finito ucciso. E anche se non era più una minaccia fisica, Jessie non era così sicura che non fosse riuscito a infiltrarsi nella mente di Hannah, corrompendola con la sua fede malata, fatta di sangue e nichilismo.

      Jessie si alzò in piedi, in parte per sgranchirsi, ma anche perché poteva sentire che stava sprofondando in una sorta di sabbie mobili mentali. Guardò la propria immagine riflessa nello specchio della sala d’aspetto. Doveva ammettere che, nonostante avesse passato gli ultimi due mesi come inaspettato tutore di un’adolescente problematica, aveva ancora un aspetto presentabile.

      I suoi occhi verdi erano chiari e limpidi. I capelli castani lunghi fino alle spalle erano puliti, morbidi e sciolti, liberi dalla solita coda di cavallo che portava al lavoro. Un lungo periodo passato senza la paura di essere braccata da un serial killer le aveva permesso di recuperare una routine lavorativa semi-normale, donando alla sua statura di oltre un metro e ottanta una forza e una solidità che da tempo aveva perduto.

      La cosa più impressionante di tutte era che nessuno dei suoi casi recenti si era presentato con sparatorie, attacchi con arma da taglio o niente che si avvicinasse a ferite personali. Come risultato, Jessie non aveva aggiunto nessuna nuova cicatrice alla sua enorme collezione, che includeva un segno all’addome, graffi lungo braccia e gambe e una lunga cicatrice rossastra a forma di luna che le percorreva per dieci centimetri circa la base del collo, dalla clavicola alla spalla destra.

      La toccò senza pensarci, chiedendosi se stesse per arrivare il momento in cui qualcuno l’avrebbe vista, insieme a tutte le altre. Aveva la sensazione che lei e Ryan si stessero avvicinando al punto in cui sarebbero stati in grado di studiare vicendevolmente da vicino le loro imperfezioni.

      Il detective Ryan Hernandez era, oltre al collega che la affiancava regolarmente nei casi, anche il suo ragazzo. Era strano usare quel termine, ma non c’era modo di aggirarlo. Si frequentavano semi-regolarmente almeno da quando Hannah si era trasferita a vivere da lei. E anche se non erano ancora arrivati a quel passo fisico finale, sapevano entrambi che ci mancava poco. L’attesa e l’imbarazzo rendevano l’ambiente lavorativo piuttosto interessante.

      Jessie fu risvegliata dai suoi pensieri dalla porta che si apriva. Hannah né uscì, il suo aspetto né turbato né chiuso. Sembrava stranamente… normale, cosa che, considerato tutto quello che aveva vissuto, sembrava di per sé bizzarro.

      La dottoressa Lemmon uscì insieme a lei e incrociò lo sguardo di Jessie.

      “Hannah,” disse la donna, “voglio parlare un paio di minuti con Jessie. Ti spiacerebbe aspettare un momento qui?”

      “Nessun problema” rispose Hannah sedendosi. “In due dovreste riuscire a determinare se sono pazza o no. Io avvertirò solo lo stato della vostra enorme violazione della regola della riservatezza sanitaria.”

      “Mi pare una buona idea,” rispose la dottoressa Lemmon, senza adescare all’amo. “Vieni dentro, Jessie.”

      Jessie si accomodò sulla stessa poltroncina che usava per le sue sedute e la dottoressa Lemmon prese posto sulla sedia di fronte a lei.

      “Voglio essere breve,” disse la donna. “Nonostante il suo sarcasmo, non penso che sia di aiuto ad Hannah la preoccupazione che io stia condividendo con te i dettagli di ciò che mi dice, anche se le ho assicurato che non l’avrei fatto.”

      “Che non l’avrebbe fatto o non avrebbe potuto farlo?” insistette Jessie.

      “È ancora sotto i diciotto anni, quindi tecnicamente, in quanto suo tutore, potresti insistere. Ma penso che questo andrebbe a minare la fiducia che sto cercando di sviluppare con lei. Ci è voluto un po’ per indurla ad aprirsi in un modo reale. Non voglio mettere a rischio questo risultato.”

      “Capisco,” disse Jessie. “Allora perché sono qua dentro?”

      “Perché sono preoccupata. Senza entrare nei dettagli, dirò che a parte una seduta in cui ha mostrato un po’ di emozione riguardo a ciò che ha vissuto, Hannah è ampiamente… indifferente. In retrospettiva, dopo averla conosciuta, sospetto che quell’unica dimostrazione di emozione sia stata effettuata a mio beneficio. Hannah sembra essersi dissociata dagli eventi che le sono accaduti, come se fosse stata un’osservatrice, piuttosto che una partecipante.”

      “La cosa non mi sembra sorprendente,” disse Jessie. “Anzi, la sento scomodamente familiare come sensazione.”

      “Come è giusto che sia,” confermò la dottoressa Lemmon. “Tu stessa hai attraversato un periodo simile. È un modo piuttosto consueto del cervello per spiegare un trauma personale. Categorizzare degli eventi traumatici o disconnettersi da essi non è insolito. Quello che mi preoccupa è che Hannah non sembra farlo per proteggersi dal dolore di ciò che le è successo. Sembra aver semplicemente cancellato il dolore dal suo sistema, quasi come un disco fisso che viene svuotato. È come se non vedesse come doloroso quello che ha vissuto, ma le considerasse semplicemente delle cose che sono accadute. Si è narcotizzata e li considera fatti che non hanno niente a che vedere con lei o con la sua famiglia.”

      “E mi viene da pensare che non sia una mossa salutare?” chiese Jessie pensierosa, mentre si spostava nervosamente sulla sua poltroncina.

      “Odio dover giudicare la cosa,” disse la dottoressa Lemmon con il suo solito tono misurato. “Per lei sembra funzionare. La mia preoccupazione è dove questo possa portare. Le persone che non riescono a entrare nel proprio dolore emotivo, a volte arrivano al punto in cui non sono in grado di riconoscere il dolore degli altri, emotivo o fisico che sia. La loro capacità di provare empatia si disintegra. Questo può spesso portare a un comportamento socialmente inaccettabile.”

      “Quello che mi sta descrivendo sembra sociopatia,” sottolineò Jessie.

      Sì,” confermò la dottoressa Lemmon. “I sociopatici mostrano alcune di queste caratteristiche. Non farei una diagnosi formale per Hannah, sulla base del tempo limitato che abbiamo passato insieme. Buona parte di questo potrebbe essere semplicemente attribuito a un profondo stato di DPTS. Ad ogni modo, hai notato qualche comportamento che possa essere ricondotto a ciò che ho appena descritto?”

      Jessie pensò agli ultimi mesi, a partire dall’inesplicabile e insensata bugia riguardo alla televisione quella mattina stessa.

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