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già da me notato prima, mi pareva più palese. Io stavo ancóra in piedi, dietro la poltrona. Fino a quel momento avevo evitato il suo sguardo movendomi ad arte per la stanza, sempre dietro la poltrona, ora occupato a fermare le tende della finestra, ora a riordinare i libri nella piccola scansia, ora a raccogliere di sul tappeto le foglie cadute da un mazzo di rose disfatto. Stando in piedi, guardavo la riga dei suoi capelli, i suoi cigli lunghi e ricurvi, la lieve palpitazione del suo petto, e le sue mani, le sue belle mani che posavano su i bracciuoli, prone come in quel giorno, pallide come in quel giorno quando “soltanto le vene azzurre le distinguevano dal lino”.

      Quel giorno! Non era trascorsa neppure una settimana. Perché pareva dunque tanto remoto?

      Stando in piedi dietro di lei, in quella tensione estrema, come in agguato, io pensai che forse ella sentiva per istinto sul suo capo la minaccia; e credetti indovinare in lei una specie di vago malessere. Ancóra una volta mi si strinse il cuore, intollerabilmente.

      A un punto, infine, ella disse:

      – Domani, se starò meglio, tu mi porterai su la terrazza, all’aria…

      Io interruppi:

      – Domani non sarò qui.

      Ella si scosse al suono strano della mia voce. Io soggiunsi, senza attendere:

      – Partirò.

      Soggiunsi ancóra, con uno sforzo per snodare la lingua, raccapricciato come uno che debba iterare il colpo per finire la vittima:

      – Partirò per Firenze.

      – Ah!

      Ella aveva compreso a un tratto. Si volse con un moto rapido, si torse tutta su i cuscini per guardarmi; e io rividi, per quella torsione violenta, il bianco de’ suoi occhi, la sua gengiva esangue.

      – Giuliana! – balbettai, senza sapere che altro dirle, chinandomi verso di lei, temendo ch’ella venisse meno.

      Ma ella abbassò le palpebre, si ricompose, si ritrasse, si restrinse in sé stessa, come presa da un gran freddo. Rimase così qualche minuto, con gli occhi chiusi, con la bocca serrata, immobile. Soltanto la pulsazione visibile della carotide nel collo e qualche contrazione convulsiva nelle mani davano indizio della vita.

      Non fu un delitto? Fu il primo dei miei delitti; e non il minore, forse.

      Partii, in condizioni terribili. La mia assenza durò più di una settimana. Quando tornai e nei giorni che seguirono il mio ritorno, io stesso mi meravigliavo della mia sfrontatezza quasi cinica. Ero posseduto da una specie di malefizio che aboliva in me ogni senso morale e mi rendeva capace delle peggiori ingiustizie, delle peggiori crudeltà. Giuliana anche questa volta mostrava una forza prodigiosa; anche questa volta aveva saputo tacere. E m’appariva chiusa nel suo silenzio come in un’armatura adamantina, impenetrabile.

      Andò con le figlie e con mia madre alla Badiola. Le accompagnava mio fratello. Io rimasi a Roma.

      Da quel tempo incominciò per me un periodo tristissimo, oscurissimo, il cui ricordo ancóra mi riempie di nausea e d’umiliazione. Tenuto da quel sentimento che meglio di ogni altro rimescola il fango essenziale nell’uomo, io patii tutto lo strazio che una donna può fare di un’anima fiacca, appassionata e sempre vigile. Accesa da un sospetto, una terribile gelosia sensuale divampò in me disseccando tutte le buone fonti interiori, alimentandosi di tutto il fecciume che posava nell’infimo della mia sostanza bruta.

      Teresa Raffo non m’era parsa mai desiderabile come ora che non potevo disgiungerla da una imagine fallica, da una sozzura. Ed ella si valeva del mio stesso disprezzo per inacerbire la mia brama. Agonie atroci, gioie abiette, sottomissioni disonoranti, patti vili proposti ed accettati senza rossore, lacrime più acri di qualunque tossico, frenesie improvvise che mi spingevano sul confine della demenza, cadute nell’abisso della lussuria così violente che mi lasciavano per lunghi giorni istupidito, tutte le miserie e tutte le ignominie della passione carnale esasperata dalla gelosia, tutte io le conobbi. La mia casa mi divenne estranea; la presenza di Giuliana mi divenne incresciosa. Intere settimane passavano, talvolta, senza che io le rivolgessi una parola. Assorto nel mio supplizio interiore, io non la vedevo, non la udivo. In certi momenti, levando gli occhi su lei, mi meravigliavo del suo pallore, della sua espressione, di certe particolarità del suo volto, come di cose nuove, inaspettate, strane; e non giungevo a riconquistare intera la nozione della realtà. Tutti gli atti della sua esistenza m’erano ignoti. Io non provavo alcun bisogno d’interrogarla, di sapere; non provavo per lei alcuna inquietudine, alcuna sollecitudine, alcun timore. Una durezza inesplicabile mi fasciava l’anima contro di lei. Anche, talvolta, io avevo contro di lei una specie di vago rancore, inesplicabile. Un giorno la sentii ridere; e il suo riso m’irritò, mi fece quasi ira.

      Un altro giorno palpitai forte, udendola cantare da una stanza lontana. Cantava l’aria di Orfeo:

      Che farò senza Euridice?…

      Era la prima volta, dopo lungo tempo, che ella cantava così, movendosi per la casa; era la prima volta che io la riudiva, dopo lunghissimo tempo. – Perché cantava? Era dunque lieta? A quale affetto del suo animo rispondeva quell’effusione insolita? – Un turbamento inesplicabile mi vinse. Andai verso di lei senza riflettere, chiamandola per nome.

      Vedendomi entrare nella sua stanza, ella si stupì; rimase per un poco attonita, in una sospensione manifesta.

      – Canti? – io dissi, per dire qualche cosa, impacciato, meravigliato io stesso del mio atto straordinario.

      Ella sorrise d’un sorriso incerto, non sapendo che rispondere, non sapendo quale contegno assumere davanti a me. E mi parve di leggere nei suoi occhi una curiosità penosa, già altre volte da me notata fuggevolmente: quella curiosità compassionevole con cui si guarda una persona sospettata di follia, un ossesso. Infatti, nello specchio di contro io scorsi la mia imagine; rividi il mio volto scarno, le mie occhiaie profonde, la mia bocca tumida, quell’aspetto di febricitante che avevo già da qualche mese.

      – Ti vestivi per uscire? – le domandai, ancóra impacciato, quasi peritoso, non sapendo che altro dimandare, volendo evitare il silenzio.

      – Sì.

      Era di mattina; era di novembre. Ella stava in piedi, presso a un tavolo ornato di merletti su cui rilucevano sparse le innumerevoli minuterie moderne destinate alla cura della bellezza muliebre. Portava un abito di vigogna oscuro; e teneva ancóra in mano un pettine di tartaruga bionda con la costola d’argento. L’abito, di foggia semplicissima, secondava la svelta eleganza della persona. Un gran mazzo di crisantemi bianchi le saliva di sul tavolo all’altezza della spalla. Il sole dell’estate di San Martino scendeva per la finestra; e nella luce vagava un profumo di cipria o d’essenza che io non seppi riconoscere.

      – Qual è, ora, il tuo profumo? – le domandai.

      Ella rispose:

      – Crab-apple.

      Io soggiunsi:

      – Mi piace.

      Ella prese di sul tavolo una fiala e me la porse. E io la fiutai a lungo per fare qualche cosa, per avere il tempo di preparare un’altra qualunque frase. Non riuscivo a dissipare la mia confusione, a riconquistare la mia franchezza. Sentivo che ogni intimità fra noi due era caduta. Ella mi pareva un’altra donna. E intanto l’aria di Orfeo mi ondeggiava ancóra su l’anima, m’inquietava ancóra.

      Che farò senza Euridice?…

      In quella luce dorata e tepida, in quel profumo così molle, in mezzo a tutti quegli oggetti improntati di grazia feminile, il fantasma della melodia antica pareva svegliare il palpito d’una vita segreta, spandere l’ombra d’un non so che mistero.

      – Com’è bella l’aria che tu cantavi dianzi! – io dissi, obbedendo all’impulso che mi veniva dalla strana inquietudine.

      – Tanto bella! – ella esclamò.

      E una domanda mi saliva alle labbra: “Ma perché cantavi?”. La trattenni; e ricercai dentro di me la ragione di quella curiosità che mi pungeva.

      Successe un intervallo di silenzio. Ella scorreva con l’unghia

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