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completamente in pietra, con una piccola e tonda vetrata colorata su una parete. La luce trapelava all’interno attraverso il vetro giallo e rosso, illuminando l’unico oggetto presente nella stanza, per il resto completamente vuota.

      La Spada della Dinastia.

      Gaceva lì, nel mezzo della stanza, stesa orizzontalmente su rebbi di ferro, come una tentatrice. Come aveva sempre fatto da quando era ragazzo, MacGil si avvicinò, le camminò attorno, la esaminò. La Spada della Dinastia. La spada della leggenda, la fonte del potere e della forza del suo intero regno, da una generazione all’altra. Chiunque avesse avuto la forza di sollevarla sarebbe stato il Prescelto, colui che era destinato a governare il regno per tutta la vita, per liberare il regno da tutte le minacce, dentro e fuori dall’Anello. Era stata una bella leggenda con la quale crescere, e non appena era stato proclamato re, MacGil aveva cercato di sollevarla lui stesso, perché solo i re della famiglia MacGil avevano il permesso di provare. I re prima di lui, tutti, avevano fallito. Lui era certo di essere diverso. Era sicuro che sarebbe stato il Prescelto.

      Ma si era sbagliato. Come si erano sbagliati tutti gli altri re MacGil prima di lui. E il suo fallimento aveva contaminato da allora la sua regalità.

      Ora, mentre la guardava, ne esaminava la lunga lama, fatta di un misterioso metallo che nessuno aveva mai decifrato. L’origine della spada era ancora più oscura dell’oggetto stesso: si diceva che fosse emersa dalla terra nel mezzo di un terremoto.

      Esaminandola, avvertì di nuovo il bruciore della sconfitta. Poteva ben essere un bravo re, ma non era il Prescelto. Il suo popolo lo sapeva. I suoi nemici lo sapevano. Poteva essere un bravo re, ma non importava cosa facesse, non sarebbe mai stato il Prescelto.

      Se lo fosse stato, era certo che ci sarebbe stata meno irrequietezza nella sua corte, minori complotti. Il suo stesso popolo si sarebbe fidato maggiormente di lui e i suoi nemici non avrebbero neppure considerato l’eventualità di attaccare. Una parte di lui desiderava che la spada semplicemente sparisse, e con essa anche la leggenda. Ma sapeva che non sarebbe successo. Quelli erano la maledizione e il potere di una leggenda. Più forti addirittura di un esercito.

      Mentre la fissava per la centesima volta, MacGil non poté fare a meno di chiedersi, ancora una volta, chi sarebbe stato. Chi, nella sua stirpe, era destinato a brandirla? Mentre pensava al compito che aveva dinnanzi, quello di eleggere un erede, si chiese chi, se mai esistesse, fosse destinato a sollevarla.

      “Il peso della lama è notevole,” disse una voce.

      MacGil si voltò, sorpreso di non essere solo nella piccola stanza.

      In piedi sulla porta c’era Argon. MacGil riconobbe la voce prima di vederlo e provò un misto di irritazione per non averlo visto prima e di sollievo nell’averlo lì in quel momento.

      “Sei in ritardo,” disse MacGil.

      “Il tuo senso del tempo non mi appartiene,” rispose Argon.

      MacGil si girò nuovamente verso la spada.

      “Hai mai creduto che sarei stato in grado di sollevarla?” chiese pensosamente. “Quel giorno, quando sono diventato re?”

      “No,” rispose Argon con franchezza.

      MacGil si voltò e lo fissò.

      “Sapevi che non ne sarei stato capace. L’avevi visto, vero?”

      “Sì.”

      MacGil ci pensò su.

      “Mi spaventi quando rispondi così direttamente. Non è da te.”

      Argon rimase in silenzio, e infine MacGil si rese conto che non avrebbe detto altro.

      “Oggi nominerò il mio successore,” disse MacGil. “Sembra inutile nominare un erede in un giorno come questo. Distoglie la gioia del re dal matrimonio di sua figlia.”

      “Forse si tratta di una gioia che deve essere moderata.”

      “Ma mi restano così tanti anni per regnare,” disse MacGil con tono lamentoso.

      “Forse non così tanti quanti tu credi,” rispose Argon.

      MacGil socchiuse gli occhi fissando Argon pensieroso. Era forse un messaggio?

      Ma Argon non aggiunse altro.

      “Sei figli. Quale dovrei scegliere?” chiese MacGil.

      “Perché lo chiedi a me. Hai già scelto.”

      MacGil lo guardò. “Tu vedi troppe cose. È vero. Eppure voglio sapere cosa ne pensi.”

      “Penso che tu abbia fatto una scelta saggia,” disse Argon. “Ma ricorda: un re non può regnare dalla tomba. Noncurante di chi pensi di scegliere, il fato ha il suo modo di scegliere per sé.”

      “Vivrò, Argon?” chiese a cuore aperto MacGil, ponendo la domanda che aveva trattenuto dentro di sé da quando si era svegliato la notte prima, destato da un incubo orribile.

      “La scorsa notte ho sognato un corvo,” aggiunse. “È arrivato e mi ha rubato la corona. Poi un altro mi ha sollevato in volo, e dall’alto ho visto il mio regno sotto di me. Diventava nero mentre mi allontanavo. Sterile. Una terra desolata.”

      Alzò lo sguardo verso Argon, gli occhi lucidi.

      “È stato solo un sogno? O qualcosa di più?”

      “I sogni sono sempre qualcosa di più, no?” chiese Argon.

      MacGil fu colpito da una terribile sensazione.

      “Dov’è il pericolo? Dimmi solo questo.”

      Argon gli si avvicinò e lo fissò negli occhi, con una tale intensità che MacGil si sentì come se stesse fissando un altro mondo.

      Argon si sporse verso di lui e sussurrò: “Sempre più vicino di quanto pensi.”

      CAPITOLO QUATTRO

      Thor si nascose tra la paglia nel retro di un carro che gli era passato accanto lungo la strada di campagna. Si era diretto verso la strada la notte prima e aveva atteso con pazienza fino a che un carro era passato, grande abbastanza per permettergli di salire a bordo senza essere visto. Era ormai buio allora, e il carro procedeva al piccolo trotto, abbastanza lentamente perché lui potesse raggiungere un discreto ritmo di corsa e saltarvi dentro dal retro. Era atterrato nel fieno e vi si era immerso dentro. Fortunatamente l’uomo alla guida non l’aveva visto. Thor non poteva sapere per certo se il carro si stesse dirigendo verso la Corte del Re, ma stava procedendo in quella direzione, e un carro di quella grandezza e con quei segni poteva essere diretto in ben pochi altri posti.

      Mentre Thor si faceva strada così durante la notte, rimase sveglio per ore, ripensando al suo incontro con il Sybold. Con Argon. Al suo destino. Alla sua precedente dimora. A sua madre. Sentiva che l’universo gli aveva dato una risposta, dicendogli che aveva un altro destino. Era rimasto steso lì, le mani intrecciate dietro la nuca, a guardare in alto il cielo notturno che era visibile attraverso la tela lacerata. Aveva osservato l’universo, così luminoso, le stelle rosse così distanti. Era euforico. Per una volta nella sua vita era finalmente in viaggio. Non sapeva verso quale destinazione, ma stava andando. Per una strada o per un’altra sarebbe arrivato alla Corte del Re.

      Quando Thor aprì gli occhi era mattina: la luce inondava il giorno e lui si rese conto di essersi assopito. Velocemente si tirò su a sedere, guardandosi intorno e rimproverandosi per aver ceduto al sonno. Sarebbe dovuto rimanere più vigile, aveva avuto fortuna che non l’avessero scoperto.

      Il carro era ancora in movimento, ma non dava poi tanti scossoni. Il che poteva significare solo una cosa: una strada migliore. Dovevano essere vicini ad una città. Thor guardò in basso e vide quanto liscia fosse la strada, senza pietre, senza crepe e costeggiata da bianche ed eleganti conchiglie. Il cuore gli batté più forte nel petto: si stavano avvicinando alla Corte del Re.

      Thor guardò fuori dal retro del carro e rimase senza parole: le strade immacolate erano brulicanti

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