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Capitolo Dieci

       Capitolo Undici

       Capitolo Dodici

       Capitolo Tredici

       Capitolo Quattordici

       Capitolo Quindici

       Capitolo Sedici

       Capitolo Diciassette

      Capitolo Uno

      Caitlin Paine temeva sempre il suo primo giorno in una nuova scuola. C’erano grandi cose, come incontrare nuovi amici e i nuovi insegnanti, imparare a conoscere nuovi corridoi. E c’erano piccole cose, come prendere possesso di un armadietto nuovo, sentire l’odore di un posto diverso e udirne i rumori. Quello che temeva di più erano gli sguardi. Si sentiva come se tutti, in un posto nuovo, guardassero lei. Tutto ciò che desiderava era passarte inosservata. Ma sembrava che non potesse mai succedere.

      Caitlin non riusciva a capire perché tutti la notassero. Il suo metro e sessantacinque non la rendeva particolarmente alta, e i suoi capelli e occhi castani (insieme ad un peso normale) la facevano sentire nella media. Non era certo bellissima come certe altre ragazze. Aveva diciotto anni ma questo non bastava a farla emergere.

      C’era qualcos’altro. C’era qualcosa di lei che faceva voltare le persone una seconda volta a guardarla. Sapeva, dentro di lei, di essere diversa. Ma non era certa di capire in che cosa.

      Se c’era qualcosa di peggio del primo giorno, era cominciare il primo giorno all’inizio del secondo quadrimestre, dopo che tutti gli altri avevano già avuto il tempo di ambientarsi. Oggi era proprio quel giorno di inizio quadrimestrer, alla metà di marzo, e sarebbe stato di sicuro uno dei peggiori. Già se lo sentiva.

      Nella sua più sfrenata immaginazione, però, non avrebbe mai creduto che sarebbe andata così male. Niente che avesse mai visto – e ne aveva viste tante – l’aveva preparata a questo.

      Caitlin era in piedi fuori dalla sua nuova scuola, una grande scuola pubblica di New York, in quella fredda mattina di marzo, e si chiedeva Perché io? Era vestita poco, solo leggings e felpa, e neanche lontanamente preparata alla chiassosa confusione che la accolse. C’erano centinaia di ragazzi lì, che strepitavano, gridavano e si spintonavano. Sembrava il cortile di una prigione.

      Era tutto troppo rumoroso. Quei ragazzi ridevano troppo forte, dicevano troppe parolacce, si spingevano con troppa forza. Avrebbe pensato che si trattasse di una zuffa di massa se non avesse colto qualche sorriso e qualche risatina canzonatoria. Avevano solo troppa energia e lei, esausta, congelata e con ore di sonno perso sulle spalle, non poteva capire da dove la prendessero. Chiuse gli occhi e sperò che tutto scomparisse.

      Mise la mani in tasca e sentì qualcosa: il suo i-pod. Sì. Si mise gli auricolari e lo accese. Aveva bisogno di coprire tutto il rumore che la circondava.

      Ma non successe nulla. Abbassò lo sguardo e vide che la batteria era scarica. Perfetto.

      Controllò il telefono, sperando di trarne un po’ di distrazione, ma niente. Nessun nuovo messaggio.

      Sollevò lo sguardo. Guardando quel mare di facce nuove si sentì sola. Non solo perché era l’unica ragazza bianca, a dire il vero era meglio così. Alcuni dei migliori amici che aveva avuto nelle altre scuole erano di colore – spagnoli, asiatici, indiani – mentre alcuni dei peggiori erano bianchi. No, non era quello il motivo. Si sentiva sola perché era in città. Era in piedi sul cemento. Una forte campanella era suonata per permettere loro l’accesso a questa “area ricreativa”, e aveva dovuto passare attraverso larghi cancelli di metallo. Ora era in gabbia, circondata da enormi cancellate sovrastate da filo spinato. Le sembrava di essere in prigione.

      E il guardare quell’enorme scuola, le sbarre e le inferriate ad ogni finestra, non la faceva sentire meglio. Si adattava sempre con facilità a una nuova scuola, grande o piccola che fosse, ma quelle che aveva frequentato erano tutte scuole di periferia. Avevano tutte erba, alberi e cielo. Qui invece non c’era altro che città. Le toglieva il respiro. La terrorizzava.

      Un’altra campanella risuonò forte e lei si diresse, insieme a centinaia di altri ragazzi, verso l’ingresso. Una grossa ragazza la urtò con forza e fece cadere il suo diario. Lei lo raccolse e poi sollevò lo sguardo aspettandosi delle scuse. Ma la ragazza non era più lì, essendosi già confusa con la folla. Sentì la sua risata, ma non poteva dire se fosse rivolta a lei.

      Tenne stretto il diario, l’unica cosa che la rassicurava. Era stato con lei ovunque. In ogni luogo andasse ci prendeva appunti e ci faceva disegni. Era una mappa della sua infanzia.

      Raggiunse infine l’ingresso e dovette schiacciarsi contro gli altri per passare attraverso alla porta. Era come entrare in un treno nell’ora di punta. Sperava di trovare un po’ di tepore una volta all’interno, ma le porte aperte alle sue spalle le facevano soffiare sulla schiena una brezza gelida, rendendo ancora più intenso il freddo.

      Due grosse guardie giurate stavano all’ingresso, affiancate da due poliziotti di New York, tutti in uniforme, con le pistole ben visibili ai fianchi.

      “MUOVETEVI!” ordinò uno di loro.

      Non riusciva a capire perché due poliziotti armati dovessero sorvegliare l’ingresso di una scuola superiore. La sua sensazione di panico si intensificò. E la situazione peggiorò quando, sollevando lo sguardo, realizzò che sarebbe dovuta passare attraverso un metal detector, di quelli che si trovano negli aeroporti.

      Altri quattro poliziotti armati si trovavano ai due lati del detector, insieme ad altre due guardie.

      “SVUOTATE LE TASCHE!” disse brsucamente la guardia.

      Caitlin notò che altri ragazzi riempivano dei sacchettini di plastica con ciò che avevano in tasca. Fece velocemente lo stesso anche lei, inserendo nel sacchetto il suo i-pod, il portafoglio e le chiavi.

      Passò lentamente sotto il detector e l’allarme suonò.

      “TU!” disse seccamente la guardia. “Di lato!”

      Ovvio.

      Tutti la guardavano mentre le facevano alzare le braccia e la guardia le faceva passare lo scanner manuale lungo il corpo.

      “Hai addosso dei gioielli?”

      Lei si passò le mani sui polsi, poi attorno al collo, e di colpo ricordò. La croce.

      “Toglila,” disse rudemente la guardia.

      Era la collana che sua nonna le aveva regalato prima di morire: una piccola croce d’argento, con incisa un’iscrizione latina che non aveva mai tradotto. La nonna le aveva detto che le era stata data a sua volta da sua nonna. Caitlin non era religiosa e non capiva veramente che significato avesse, ma sapeva che aveva centinaia di anni ed era per certo la cosa più preziosa che possedesse.

      Caitlin la sollevò fuori dalla maglietta tenendola alta, ma senza sfilarla.

      “Preferirei di no,” rispose.

      La guardia la fissò con occhi freddi come il ghiaccio.

      Di colpo vi fu un improvviso trambusto. Si udirono delle urla mentre un poliziotto afferrava un ragazzo alto e magro e lo spingeva contro il muro, requisendogli un coltellino dalla tasca.

      La guardia si avvicinò per dare una mano e Caitlin colse l’occasione per scivolare tra la folla, portandosi verso l’atrio.

      Benvenuta alla scuola pubblica di New York, pensò Caitlin. Fantastico.

      Già contava

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