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scossero Riley. Sapeva esattamente che cosa lui intendeva. Ed aveva ragione. Gli aveva raccontato tutto tempo prima, perciò non c’era alcun motivo di ripeterlo ora. Il partner lo sapeva già. Ma la cosa non rendeva il ricordo meno doloroso.

      Riley aveva sei anni, e la mamma l’aveva portata in un negozio di caramelle. Riley era eccitata e stava chiedendo tutte le caramelle che riusciva a vedere. A volte, la mamma la rimproverava per comportamenti simili. Ma quel giorno la mamma era dolce e la stava viziando, comprandole tutte le caramelle che desiderava.

      Proprio quando erano in fila alla cassa, uno strano uomo si avvicinò a loro. Indossava qualcosa sul volto, che gli appiattiva naso, labbra e guance, facendolo apparire buffo e spaventoso allo stesso tempo, quasi come un pagliaccio del circo. A Riley occorse un istante per rendersi conto del fatto che portava una calza di nylon sulla testa, proprio come quelle che la mamma indossava sulle gambe.

      Impugnava una pistola. E sembrava enorme. La stava puntando contro la mamma.

      “Dammi la borsa” le disse.

      Ma la mamma non lo fece. Riley non sapeva perché. Tutto ciò di cui era consapevole era che la mamma era spaventata, forse troppo spaventata per fare ciò che l’uomo le aveva chiesto, e probabilmente anche Riley avrebbe dovuto avere paura, e infatti, così era.

      L’uomo rivolse delle brutte parole alla mamma, ma lei non gli diede comunque la borsa. Era tutta tremante.

      Poi, ci fu uno sparo e un bagliore, e la mamma cadde a terra. L’uomo disse di nuovo delle cattive parole e poi scappò via. Il petto della mamma era insanguinato, e lei ansimò e si dimenò un istante prima di diventare completamente immobile.

      La piccola Riley iniziò a gridare. Non smise per molto tempo.

      Il tocco gentile della mano di Bill sulla sua riportò Riley al presente.

      “Mi dispiace” Bill disse. “Non intendevo riportartelo alla mente.”

      Aveva ovviamente visto la lacrima che le scendeva lungo la guancia. Gli strinse la mano. Gli era grata per la comprensione e la preoccupazione. Ma in verità Riley non aveva mai raccontato a Bill un ricordo che la turbava ancora di più.

      Suo padre era stato un colonnello nei Marines, un uomo rigido, crudele, insensibile, indifferente e spietato. In tutti gli anni successivi, aveva incolpato Riley della morte della madre. Sembrava che non gli importasse il fatto che avesse avuto soltanto sei anni.

      “Avresti potuto spararle, già che eri lì, per quanto aiuto le hai dato” le aveva detto il genitore.

      Il padre era morto l’anno precedente senza averla mai perdonata.

      Riley si asciugò le lacrime e guardò fuori dal finestrino, osservando il paesaggio che lentamente scorreva sotto di loro, a chilometri di distanza.

      Come succedeva sempre, nuovamente si rese conto di quanto avesse in comune con Bill, e di quanto fossero entrambi perseguitati dalle tragedie e ingiustizie del passato. In tutti quegli anni, erano stati guidati entrambi dagli stessi demoni, perseguitati da fantasmi simili.

      Dopo tutta la sua preoccupazione per Jilly e per la sua vita a casa, ora Riley sapeva che aveva fatto bene ad accettare di unirsi a Bill su questo caso. Ogni volta che lavoravano insieme, il loro legame diventava più forte e più profondo. Stavolta non sarebbe stato affatto diverso.

      Avrebbero risolto quegli omicidi, lei ne era sicura. Ma che cosa avrebbero ottenuto o perso in cambio lei e Bill?

      Forse entrambi guariremo un po’, la donna pensò. O forse le nostre ferite si apriranno e faranno più male.

      Si disse che non importava affatto. Avevano sempre collaborato, portando a termine il lavoro, a prescindere da quanto fosse dura.

      Ora dovevano affrontare un crimine particolarmente efferato.

      CAPITOLO SETTE

      Mentre l’aereo del BAU atterrava a Sea-Tac, il Seattle-Tacoma International Airport, una forte pioggia batteva sui finestrini. Riley guardò il suo orologio: in quel momento, a casa sua, erano circa le due del pomeriggio. Lì, invece, erano le undici del mattino; avrebbero avuto il tempo per occuparsi del caso già quel giorno.

      Mentre i due si dirigevano verso l’uscita, il pilota uscì dalla cabina e porse a ciascuno un ombrello.

      “Vi serviranno” disse, sorridendo. “L’inverno è il periodo peggiore per venire in questo angolo del paese.”

      Appena uscita dal portellone, in cima alla scaletta, Riley fu costretta ad ammettere che il pilota aveva ragione. Gli ombrelli erano utili, ma avrebbe voluto avere abiti più caldi. Era tanto freddo quanto piovoso.

      Un SUV si avvicinò alla pista. Due uomini in impermeabile uscirono dal veicolo, recandosi verso l’aereo. Si presentarono come gli Agenti Havens e Trafford dell’ufficio territoriale dell’FBI di Seattle.

      “Vi porteremo all’ufficio del coroner” l’Agente Havens disse. “Il caposquadra di questa indagine vi attende lì.”

      Bill e Riley entrarono nell’auto, e l’Agente Trafford iniziò a guidare nella pioggia battente. Riley riusciva a malapena a distinguere i soliti hotel vicino all’aeroporto lungo la strada; a fatica poteva intuire che tutto fosse al suo posto. Sapeva che c’era una città vitale là fuori, ma era praticamente invisibile.

      Dubitava di riuscire a visitare Seattle durante la sua permanenza lì.

      *

      A Riley bastò un minuto, seduta con Bill nella sala conferenze nell’edificio del coroner di Seattle, per intuire che c’erano guai in vista. Un solo scambio di sguardi con Bill fu sufficiente a farle capire che anche il partner stava provando la medesima tensione.

      Il Caposquadra Maynard Sanderson era un uomo robusto, i lineamenti duri; il suo aspetto colpì Riley, a cui sembrava qualcosa a metà tra un soldato o un predicatore.

      Sanderson era visibilmente in disaccordo con un uomo tarchiato, i cui baffi da tricheco disegnavano un’espressione perennemente arrabbiata. Le era stato presentato come Perry McCade, il Capo della Polizia di Seattle.

      Il linguaggio del corpo dei due uomini e i posti che occupavano al tavolo la dicevano lunga agli occhi di Riley. Quale che fosse la ragione, l’ultima cosa che avrebbero voluto era condividere la medesima stanza. E lei era sicura del fatto che entrambi fossero disturbati dalla presenza sua e di Bill lì.

       Ricordò le parole di Brent Meredith prima che lasciassero Quantico:“ma non aspettatevi un’accoglienza calorosa. Né i poliziotti né i federali saranno felici di vedervi.”

      Riley si chiese in quale tipo di campo minato lei e Bill stessero camminando.

      Stava avvenendo una complessa lotta di potere, senza che fosse pronunciata una sola parola. E, nel volgere di pochi minuti, intuì che lo scontro stava per diventare anche verbale.

      Al contrario, il Capo dell’Ufficio del Coroner, Prisha Shankar, appariva a proprio agio e serena. Aveva pelle e capelli scuri, era circa dell’età di Paige e sembrava stoica ed imperturbabile.

      Dopotutto, è nel suo territorio, immaginò Riley.

      L’Agente Sanderson si prese la libertà di dare inizio al meeting.

      “Agenti Paige e Jeffreys” esordì, rivolgendosi ai due soggetti in questione, “sono felice che siate riusciti a raggiungerci da Quantico.”

      La sua voce glaciale suggeriva a Riley che era vero il contrario.

      “Felici di poter essere utili” rispose Bill disse, sembrando incerto.

      Riley si limitò a sorridere e annuire.

      “Signori” Sanderson continuò, ignorando la presenza delle due donne, “siamo tutti qui per indagare su due omicidi. Un serial killer potrebbe aver iniziato ad operare qui nell’area di Seattle. Spetta a noi impedirgli di continuare a colpire.”

      Il

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