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atilde Serao

      LE AMANTI

      LA GRANDE FIAMMA

      A Rocco Pagliara

      I.

      Nell’ora tarda della sera, partita l’ultima persona amica o indifferente, per la quale essa provava l’orgogliosa e invincibile necessità di mentire, chiuse tutte le porte ermeticamente, piombata la casa nel profondo silenzio notturno, interrogate con lo sguardo sospettoso fin le fantastiche penombre della sua stanza solitaria, dove sola vivente era una pia lampada consumantesi innanzi a una sacra immagine, prosciolto il suo spirito dall’obbligo della bugia e le sue labbra dall’obbligo del sorriso, ella si lasciava abbruciare dalla grande fiamma. Immobile, con le palpebre socchiuse e le mani abbandonate lungo il corpo, ritta come un bianco fantasma nel mezzo della sua stanza, sentiva un flusso di calore salire alle guancie delicatamente brune e smorte, un flusso di calore vivificarle il cervello, un’onda di lacrime calde pungerle i bellissimi grandi occhi bruni. Scorrevano taciturnamente, senza singhiozzi, le lacrime calde sulle guancie e le avvampanti guancie se le ribevevano: dal cuore e dal cervello che ardevano, si diffondeva per tutta la persona l’impetuoso torrente di quel calore ed ella sentiva tutte le sue piccole vene palpitare nella fiamma che le dilatava. Lo scoppio della passione lungamente represso, in quel generoso organismo, assumeva la forma di febbre ad altissima temperatura: ed essa, vacillante, come se avesse smarrito il senso di ogni altra cosa che la sua febbre non fosse, si lasciava cadere sul letto, rigida, con la vestaglia bianca che si stendeva come un sudario sul broccato scuro della coltre. Così, sola, con gli occhi sbarrati ove si disseccavano le estreme lacrime, guardando il soffitto pieno di ombre, col petto sollevato da affannosi sospiri come i febbricitanti, ella abbruciava di passione per l’assente, per il lontano: nè le sue labbra convulse osavano pronunziarne il dolce nome, temendo che le fatali sillabe pronunziate in quel silenzio, in quella solitudine, rivelassero a tutto il mondo il suo segreto. Sopra un fondo di fiamma, nella sua fantasia che vampeggiava, ella vedeva scritte le sillabe divoratrici di quel nome, in lettere nere e vive, talvolta immobili, talvolta confondentisi in una bizzarra danza; ma non osava pronunziare quelle sillabe seduttrici; temeva di struggersi, dicendole; temeva di morire di dolcezza, pronunziandole.

      Quell’entrata così vibrante di febbre appassionata, nelle prime ore della notte, si ripeteva due o tre volte; pareva che ella si assopisse in un soave abbruciamento di sangue, in un seguirsi di fiammeggianti visioni, dove talvolta, accanto al nome adorato, si veniva a delineare vagamente un fiero profilo maschile, dove uno sguardo superbo e amoroso lampeggiava; ed ella sentiva tutto il suo spirito carezzato, cullato da questa visione; la veglia si tramutava in sopore febbrile e in sogno. Ma, ogni tanto, la visione diventava così vera, così viva, così fremente di amore che ella udiva, sì, udiva, una voce sommessa pronunziare il suo nome: ella trabalzava, ripresa da un soffocante impeto di passione, cercando con le mani, nell’oscurità, quelle calde mani amate; soffocava, bruciava. Si levava come un’anima errante, andava al balcone, sollevando la pesante tenda di broccato, schiudendo le imposte di legno, appoggiando l’acceso volto sul gelido cristallo. Era alta la notte; nella strada non passava alcuno; spesso, il freddo vento notturno agitava le fioche luci dei lampioni, riempiendo la via di bizzarre forme oscure; o qualche viandante in ritardo, ignoto, a capo basso, passava senz’accorgersi di quel balcone quietamente, mitemente, illuminato, dietro il quale stava un’ombra immobile; qualche malinconica carrozza notturna, vuota, dal cocchiere sonnacchioso, dal sonnacchioso cavallo, veniva lentamente dall’alta ombra della via, si perdeva lentamente, lontana, nella bassa ombra della via. Ella guardava questo spettacolo di oscurità e di pace, con gli occhi intenti, sentendo il freddo esteriore penetrare dalla fronte, dalle guancie, dalle labbra che quasi baciavano il cristallo: la sua febbre si calmava; le vene battenti si chetavano; il petto, oppresso, respirava più liberamente; macchinalmente ella si staccava dai cristalli, richiudeva le imposte, lasciava ricadere le molli, strascicanti tende di broccato, faceva un paio di giri nella sua stanza, guardando talvolta nell’alta e stretta specchiera la sua figura bianca e i suoi occhi che bruciavano sempre. Come tutti quelli che soffrono d’insonnia, per una forte causa morbosa o per una forte causa morale, ricoricandosi, ella sentiva come un grande refrigerio, dolcissimamente parea che si dovesse addormentare nel ricordo, nella speranza del suo amore. La passione consumatrice nell’ora che fuggiva, si faceva tutta tenerezza letificante, diventava un fresco soffio che le alitava sulla fronte, sugli occhi, sulle labbra, sulle mani, come a vincerne il bruciore, ed ella si assopiva, nuovamente, con le labbra che si muovevano a una benedizione. Ma, ad un tratto, un incubo mostruoso, senza nome, qualche cosa come un’orribile paura, la scuoteva, la faceva balzare sul letto, come cercando soccorso, non sapendo, non conoscendo, non pensando più nulla, vinta da uno spavento folle. Era allora che, levatasi, nella penombra, in preda a un delirante bisogno di soccorso, ella andava a buttarsi innanzi alla sacra immagine, prostrandosi sul gradino dell’inginocchiatoio, abbassando il capo sul duro legno di quercia, dicendo rapidamente le preghiere, per non pensare, per non sentire, pregando, pregando, pregando, con un fervore di anima disperata, restando lì, attaccata a quel legno, come se fosse quello della sua salvazione. Ma sia che l’alba la sorprendesse dietro i cristalli del suo balcone, o distesa sul letto con gli occhi spalancati, o sonnecchiante malamente, o immersa in preghiere con le labbra frementi sui grani di legno del suo rosario, certo che, a quell’ora gelida, la sua febbre era domata, era caduta: ella tremava di freddo, pallida, con le labbra violacee, con la bocca amara, con le ossa rotte, quasi uscisse dal terribile abbraccio della terzana; il viso le si era allungato e come pietrificato in un’espressione di sofferenza; i capelli le ricadevano sul collo, disciolti, prendendo certi profili tragici, che solo le chiome delle donne appassionate hanno. Invano cercava di riscaldarsi, buttando sul letto una pelliccia, facendo un gran fuoco nel caminetto, accendendo tutti i lumi della sua stanza: fra quel grande calore esteriore ella batteva i denti, si addormentava rabbrividendo, rabbrividendo, livida, con la fiamma del caminetto che crepitava, con le candele la cui fiammella strideva nel calore, col sole mattinale che entrava, scintillando, fra i velluti, i broccati e le pelliccie, non giungendo a riscaldare quel gelido corpo di donna dormiente, dalle palpebre scure e fredde come il granito, dalle labbra assottigliate e tremanti ancora di freddo. Come la mattinata scorreva, entrava la cameriera, trovando le candele che si consumavano, le legna arse che si coprivano di cenere, il sole che invadeva tutta la stanza gaiamente, e quel cadavere dormiente, che riaprendo gli occhi, rabbrividiva ancora, come se ritornasse dal gelo di un sepolcro. Ogni mattina, sopra un piatto di argento, la cameriera porgeva una lettera. Ma già la maschera umana aveva velato la sembianza della povera febbricitante: ed ella stendeva la mano, con indifferenza, a prendere quella lettera, aspettava che la cameriera avesse spento i lumi, riacceso il caminetto, spalancato le imposte al sole, aspettava, intorpidita e immobile.

      – Si sente male? – diceva la cameriera, guardando il volto bruno e smorto della sua padrona che ella amava.

      – No: ho freddo – mormorava la padrona, stringendo la lettera d’amore nella mano sottile e agghiacciata, senza neppure guardarne la busta, come se fosse inutile aprirla.

      La fanciulla devota le riassettava le molli coltri scomposte dall’insonnia, le rialzava i cuscini disordinati su cui era abbandonata la foltezza dei capelli neri, la interrogava con una umile occhiata: ma vista la padrona tutta perduta in un pensiero, usciva discretamente dalla stanza, chiudendone la porta, aspettando di esser chiamata per ritornare. Allora soltanto, con un atto breve, quasi convulso, la smorta signora faceva saltar via la busta lacerata e leggeva la lettera tutta bruciante di passione che il suo amore le scriveva.

      Lettera incoerente e puerile, balbettìo talvolta bizzarro, talvolta monotono di frasi stravaganti che si ripetevano, si accavallavano, si confondevano, si affannavano sulla carta, come nell’anima malata di chi le scriveva. Eppure egli non era nè un fanciullo, nè un pazzo, nè un infermo; era un uomo di trent’anni, vigoroso, completo nella sua manifestazione morale, che aveva saputo vivere, amare, soffrire. Era un forte lottatore che le aveva coraggiosamente combattute le sue battaglie, talvolta vinto, spesso vincitore, mai domato: era un sagace conoscitore di sè stesso, delle cose e degli uomini, capace di grande scetticismo e di grande entusiasmo, poichè questa è la vita, e saggio chi sa apprezzarla e viverla così. Eppure quell’amore nato tardi, nato improvvisamente, come quei misteriosi e voluttuosi fiori del tropico che germogliano ricchi e violenti, in una notte, quell’amore impetuoso destinato a essere soffocato sotto le apparenze fallaci della cortesia, gli faceva tremare

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