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L'assedio di Firenze. Francesco Domenico Guerrazzi
Читать онлайн.Название L'assedio di Firenze
Год выпуска 0
isbn 4064066069841
Автор произведения Francesco Domenico Guerrazzi
Жанр Языкознание
Издательство Bookwire
«Santità», riprese l'imperatore commosso, ed altrove volgendo la faccia allontanava con la destra la santa reliquia, «non vogliamo, di grazia, porre la colpa traverso una via ch'ella poi non c'impedirebbe percorrere quando la necessità ne stringesse o l'utile ne invitasse: e inoltre noi non saremo a condizione pari; imperciocchè voi teniate le chiavi di san Pietro e con esse la potestà di legare e di sciogliere, mentre io non troverei in veruna parte del mondo un altro papa Clemente che me sciogliesse dal trattato di Bologna, come voi scioglieste Francesco I di Francia dal trattato di Madrid[74]. Non giuriamo pertanto; facciamo meglio, industriamoci di mantenere perenne l'utile che adesso troviamo nella scambievole unione. In ogni caso io sono fermo di non giurare.»
Il pontefice turbato si tacque.
Carlo agita un campanello d'argento. Le porte della sala si aprono strepitose, e quinci si vedono in due ale lunghissime disposti in ginocchio da una parte gli ufficiali dell'imperatore, dall'altra del papa, e in fondo, di faccia, un prelato in piedi con la triplice croce, insegna della presenza del vicario di Cristo. Carlo medesimo si prostrò davanti a Clemente e in atto di riverenza divota supplicò:
«Beatissimo Padre, vogliate compartirci la vostra apostolica benedizione.»
E il papa, sollevata la destra, susurrò la benedizione. Quali pensieri gli si avvolgessero per la mente, Dio gli sa che li vide, ma anche noi possiamo dichiarare che certamente non furono di amore. Però dei circostanti taluno ne rimase intenerito fino alle lagrime; — tal altro ne sorrise come di scena rappresentata valentemente da attori famosi; — tutti poi si accordarono nel credere che cotesti due potenti avessero trovato utile bastevole per diventare amici.
E Carlo disparve; — le porte si chiusero, — Clemente si trovò solo nella stanza. — Allora, declinato il capo sul camino, meditò, — meditò per lunghissima ora: all'improvviso si muove e si pone davanti alla sedia che occupò l'imperatore durante il colloquio:
«Carlo d'Austria!» cominciò a dire alzando il dito e comprimendolo sopra l'angolo della tempia destra, «le libertà dei comuni di Spagna, i privilegi delle città dei Paesi Bassi, le prerogative degli Stati Germanici ti avviluppano dentro rete validissima. Tu ti sforzi con ogni ingegno per divorarli; bada, Maestà, il tarlo rodendo si scava la tomba. La tua potenza non uguaglia il tuo orgoglio, i vasti concetti della tua mente non posano sopra anima in proporzione vigorosa; se pieno di forza rassomigli al sole di estate, come quel sole ogni giorno il tuo spirito tramonta. Maestà, tu mi hai supplicato per ottenere dalle mie mani una corona; ah semplice che fosti! io sarei venuto in capo al mondo per offrirtela; — pròstrati, Maestà, umiliati, perchè mi tarda importi questa corona sul capo; — io la circonderò di punte invisibili e angosciose, le quali ti penetreranno nel cranio scompigliandoti il pensiero, turbandoti del continuo la coscienza. Io ti adatterò la corona sul capo come il collare al collo dello schiavo; che importa a me di cingertene il collo, la mano, il piede o la testa? Non per questo tu diventi meno servo alla chiesa romana! Affrettati a prostrarti, Maestà: io m'innalzerò tanto, quanto tu l'abbasserai; e allorchè, Maestà[75], avrai baciato la polvere de' miei calzari, ti travaglierai indarno per dominarmi sul capo. Rendimi grande con la tua viltà e in processo di tempo se vorrai abbattere l'idolo che tu stesso avrai fatto grande, o non vi riuscirai, o rimarrai infranto sotto la rovina di quello.»
«Chi siete? donde venite e dove andate?»
Con uno strido da uccellaccio notturno gridò certa squallida figura, lanciandosi a guisa di gatto dal banco dei doganieri in mezzo alla porta di Santo Stefano a Bologna ed afferrando per la briglia il cavallo di un uomo che agli atti e alle vesti sembrava un cavallaro.
Dov'egli non avesse profferito coteste parole, non lo avrebbero reputato mai creatura umana. Siffatti sciagurati, se pure uscirono di mano, alla natura, ciò avvenne per certo nell'ora del crepuscolo, verso notte qual mal si discerne quello che si opera, e le membra spossate non si reggono dalla fatica; colpa od errore del quale ella meriterebbe riprensione, e lo dovrebbe riparare con un ammenda onorevole.
Una testa, di sotto, di sopra, tutta tonda, colorita con la serie infinita dei gialli e dei verdi che presentano le mal'erbe cresciute per la superficie delle acque corrotte, e su le mascelle più verdi a cagione della barba. La fronte poi, ingombra di capelli neri ed irti; e quella fronte, larga quanto basta per improntarvi sopra il marco dei falsarii. I suoi occhi, a vero dire, accennavano una scaltrezza intensa, ma limitata entro angustissimo cerchio; — scaltrezza da tagliaborse, da baratore di carte, e nulla più. Una testa da incutere spavento, se non avesse mosso a riso, — da mandarsi senza processo al patibolo, — o da presentarla a' fanciulli per giuoco. Le spalle aguzze, la persona rigida e piegata in avanti, le braccia aperte, quasi per equilibrare l'osceno edifizio del corpo, e le mani stese, perpetuamente moventisi a quell'atto che fa lo sparviere o uccello altro di rapina quando raspa per ghermire; — forse la continua fissazione dell'anima, — se anima può dirsi lo spirito che dentro cotesti enti rumina sempre malefizii ed insidie — partecipava quel moto alle sue mani, imperciocchè egli fosse una di quelle creature le quali in ogni tempo oscillano tra la catena, il capestro e la lapidazione del popolo inferocito, — disprezzate a un punto e abborrite, — capaci di vendere trenta Cristi per un danaro solo; vergogna della specie alla quale appartengono come un'ulcera al corpo umano; — qualche cosa più di un carnefice, qualche cosa meno di un giudice; — allora si chiamavano cancellieri criminali, — oggi commissarii, delegati, arnesi insomma di polizia.
Il cavallaro, giovane e di membra validissime, stette alquanto in forse di rispondergli, o balestrarlo venti passi lontano; pur finalmente tra sdegnoso e beffardo, disse:
«Messere, siete voi del Cottaio o del paese del prete Gianni, che non conoscete l'assisa del comune di Fiorenza? — O non vedete il giglio roseo, insegna della nostra repubblica?»
«Che gigli e che non gigli? Io non so di gigli. — Dello stato di Fiorenza non conosco nè approvo altra insegna che le palle dei Medici.»
«Sapete voi, messere, come corre il proverbio al mio paese? Se non ti piace, mi rincara il fitto.»
«Eh! se permettessero di fare a me, non vi lascerei nè anche gli occhi per piangere, non che la bocca per proverbiare...»
«Fate una cosa, messere: unite le vostre armi con quelle dell'imperatore e moveteci la guerra...»
«Io vi farei paura...»
«E ve lo credo senza giuramento; paura da sconciare le donne gravide...»
«Ch'è questo?» interruppe sopraggiungendo un secondo cavallaro assai attempato e di sembianze più mansuete del primo; «ch'è questo, messere?»
«Non si passa», risponde il cancelliere.
«Manco fatica, più sanità; e ce ne torneremo addietro...
«Non si torna addietro.»
«Saremmo per avventura ritenuti prigionieri?»
«Così fosse!»
«Dunque?»
«Scendete, aprite, le valigie, perchè i gabellieri le visitino.»
«Deh! che mal'ora scegliete a burlare, messere! lasciatene andare per la nostra via, chè siamo della famiglia dei magnifici ambasciatori spediti dalla Signoria di Fiorenza al sommo pontefice.»
«Egli è bene per questo ch'io vi debbo frugare.»
«Ma a voi, che mi parete uomo di lettere, non dovrebbe essere mestieri insegnare come presso tutti i potentati della terra, il Turco inclusive, gli ambasciatori e le famiglie loro godono franchigia di dazii e gabelle.»
«Sua Santità