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Perlustrò la stanza con lo sguardo alla ricerca di una sedia, ma non ce n’erano. Però c’era la gabbia.

      Con la poca forza che aveva, Caroline la trascinò fino alla parete, sotto alla finestra. C’erano schegge di vetro appuntite attorno al davanzale, e Caroline usò i gomiti per spazzarle via. Poi salì sopra alla gabbia, pregando che sostenesse il suo peso. Era stabile.

      Incapace di tenersi con le mani legate, si sporse oltre la finestra, appoggiando gli avambracci sul davanzale. Mentre strisciava in avanti, sentì una scheggia di vetro rimasta che le si piantava nella pelle. Cercò di ignorarla, concentrandosi invece sul salto che la separava dal terreno sottostante. Alla tenue luce della luna, le parve essere circa un metro e mezzo.

      Non aveva molta scelta. Quindi si tirò più avanti con gli avambracci e spinse forte i piedi contro la gabbia. Quella scivolò indietro e lei cadde, il busto e le anche che sbattevano contro il davanzale e le schegge affilate come rasoi che si erano raccolte lì.

      Per fortuna la maggior parte del suo peso era atterrato sulla sua spalla destra e in seconda battuta sulla schiena. Ignorando il dolore alle ossa, Caroline si mise in piedi e si allontanò barcollando dall’edificio, cercando qualsiasi cosa che potesse somigliare a una strada.

      Dopo diversi minuti di ricerca, ne trovò una per sbaglio quando i suoi piedi nudi passarono dall’erba a terra e ghiaia. Abbassò lo sguardo, quasi incapace di distinguere la differenza di colore tra le due superfici. Fece comunque del proprio meglio per seguire la strada, usando come guida più i piedi che gli occhi e tentando di non permettere al panico di avere il sopravvento su di lei.

      Mentre svoltava un angolo ai piedi della collina, si chiese dove l’uomo avesse potuto portarla, dato che non riusciva a vedere le luci di nessuna cittadina. E poi tutt’a un tratto le vide. Quando ebbe fatto il giro della collina, le ammiccanti luci del centro di Los Angeles la salutarono come un enorme faro che le offriva conforto, ma la metteva anche in guardia.

      Caroline fece un passo in avanti, ipnotizzata da quella vista. Lei viveva a West Hollywood, dove non faceva quasi mai buio, anche se raramente se n’era resa conto. Ora l’improvvisa comparsa della città la faceva sentire come se si fosse trovata nel mezzo di un deserto, da dove avesse appena avvistato un’oasi. Fece un altro passo, lasciando la terra e sentendo ancora l’erba umida sotto ai piedi.

      Ma tutt’a un tratto sentì che perdeva la presa sul terreno. Si rese conto troppo tardi che aveva messo il piede sul bordo di un altro versante della collina e che il terreno le stava franando sotto. Ruotò su se stessa allungando le braccia e tentando di afferrare una radice o un ramo. Ma con la fune ai polsi le fu impossibile.

      Improvvisamente si trovò a precipitare, rotolando e rimbalzando contro rocce e alberi. Cercò di chiudersi a palla, ma era difficile farlo. A un certo punto la sua gamba destra sbatté contro un albero, piegandosi in maniera molto dolorosa.

      Caroline non aveva idea di quanto continuò a cadere, ma quando alla fine si fermò, solo il dolore lancinante le assicurò che era ancora viva. Aprì gli occhi, rendendosi conto di averli tenuti ben chiusi per tutto il tempo della discesa.

      Le ci vollero diversi secondi per orientarsi. Era sdraiata di schiena, rivolta verso la cima della collina. Da quanto vedeva, aveva di certo fatto un volo di almeno venti metri lungo un versante ricoperto di rocce, cespugli e alberi secchi. Piegò la testa di lato e vide una cosa che, nonostante tutto il dolore che provava, la riempì di gioia: dei fanali.

      Si sforzò di ruotare a pancia in giù. Sapeva di non poter appoggiare alcun peso sulla gamba destra, figurarsi alzarsi in piedi. Quindi strisciò, piantando le unghie nella terra prima, e poi spingendosi con la gamba sinistra, ancora operativa. Riuscì a trascinare il proprio corpo per metà sulla strada, dove rotolò in posizione supina e agitò disperatamente le braccia legate sopra alla testa.

      I fanali smisero di avanzare e lei sentì un motore spegnarsi. Quando qualcuno smontò dal veicolo e Caroline vide gli stivali che avanzavano verso di lei, ebbe un improvviso quanto orribile pensiero.

      E se fosse l’uomo che mi aveva preso?

      Un attimo dopo le sue paure svanirono, quando vide la persona inginocchiarsi accanto a lei e si accorse che era una donna con indosso quella che sembrava un’uniforme da guardia forestale.

      “Ma che diavolo…?” disse la donna, prima di tirare fuori una radio e parlare con voce carica di urgenza. “Centrale uno, parla il Ranger Kelso. Ho una situazione di emergenza sulla Vista Del Valley Drive, quadrante sei. C’è una donna ferita sdraiata a bordo strada. Ha una brutta frattura alla gamba destra e i polsi legati. Chiamate il nove-uno-uno. Penso sia stata rapita, proprio come le altre.”

      CAPITOLO DUE

      “Perché sento puzza di bruciato?”

      Hannah pose la domanda con voce calma, ma Jessie poté comunque percepire il suo tono d’accusa. C’era solo un motivo per cui qualcosa stesse potenzialmente bruciando: perché Jessie ci stava provando un’altra volta, e di nuovo stava fallendo miseramente.

      Scattò via dal tavolo della cucina dove stavano giocando a Trivial Pursuit e andò di corsa al forno, aprendolo e scoprendo che i suoi scone di lampone e arancia avevano un aspetto decisamente nerastro e bruciacchiato. Si infilò frettolosamente un guanto da cucina e li tirò fuori, posandoli senza tanti complimenti sopra ai fornelli. Dal paninetto più annerito si levavano piccoli rivoli di fumo.

      Jessie sentì Ryan che rideva dal tavolo. Hannah aveva un’espressione delusa in volto, come se fosse lei la tutor ufficiale che tentava con tutte le forze di trattenersi dal rimproverare la problematica ragazza che aveva in carico. Ovviamente le cose generalmente erano l’esatto opposto, quindi l’espressione di Hannah rivelava anche un pizzico di soddisfazione.

      “Non girare il dito nella piaga,” disse Jessie sulla difensiva.

      “Non lo farei mai,” rispose la ragazza con finto tono d’offesa.

      “Magari potremmo usarli come dischetti per una partita a hockey,” propose Ryan.

      “Oppure sassi da tirare?” suggerì Hannah con eccessivo entusiasmo.

      Jessie cercò di non sentirsi troppo irritata per le innocenti punzecchiate della sorellastra. Abbassò lo sguardo sui resti fumanti del suo tentativo culinario e sospirò.

      “Immagino che dovremo tirare fuori dal congelatore l’ultima scorta di quelli che avevi preparato tu,” disse rassegnata.

      “Fai pure,” disse Hannah. “Ma sbrigati. Mi mancano solo due pezzi per vincere questa partita.”

      “Dammi un minuto,” disse Jessie, rovistando nel congelatore e trovando il contenitore degli scone. Li infilò nel tostapane e aspettò che si scaldassero, non volendo rischiare di bruciare anche quelli.

      “Non capisco,” disse Ryan canzonandola. “Sei la seconda profiler criminale di tutto il sud California, eppure sembri incapace di cucinare qualcosa senza usare il microonde. Com’è possibile?”

      “Priorità, Hernandez,” gli rispose. “Qualcosa a metà tra il dare la caccia ai serial killer, l’intrufolarsi nelle politiche del Dipartimento, restare sexy per te…”

      “Bleah!” si intromise Hannah.

      “E occuparmi di un’adolescente so-tutto-io.”

      “Non ho così tanto bisogno che ti occupi di me, se vuoi proprio saperlo,” ribatté Hannah sorridendo.

      Jessie insistette.

      “Da qualche parte in mezzo a tutto questo, ho dimenticato di prendere lezioni di pasticceria. Vogliate scusarmi.”

      “È per questo che il tuo ex-marito ha tentato di ammazzarti?” chiese Hannah, sgranando gli occhi in un’espressione di finta innocenza.

      “No,” si intromise Ryan. “Quello era per la sua fesa di manzo. È un crimine contro l’umanità.”

      Jessie tentò di non sorridere.

      “Non apprezzo particolarmente tutta questa combutta contro di me. E vorrei farvi notare che nessuno, tra coloro che hanno tentato di farmi fuori, ha mai citato la cucina

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