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del divano. Niente aveva importanza. L’oscurità era scesa su Bethesda e lei non si era neanche presa il disturbo di alzarsi per accendere la luce. In lontananza, i puntini gialli nello skyline le dicevano che Washington era ancora sveglia, ma lei era stanca di fissarli.

      Quello non era più il suo mondo. Quando lo guardava, riusciva soltanto a vedere i numeri: i piani di ogni edificio e la quantità di finestre, la distanza da terra, il tempo che avrebbe impiegato un oggetto in caduta per colpire il marciapiede da una determinata altezza. Il numero di edifici, le divisioni delle strade e gli angoli d’intersezione tra di loro: le girava tutto in testa, al punto che ormai non voleva altro che seppellirsi nell’oscurità e spegnere qualsiasi cosa una volta per tutte.

      Ma poi, a occhi chiusi, altri sensi presero il sopravvento. I secondi che ticchettavano dal suo orologio, che aveva tolto da giorni e gettato da qualche parte nella stanza per evitare di continuare a sentirlo. Era stato inutile: riusciva ancora a contare il tempo che passava. Persino le bollicine che scoppiettavano nella bottiglia di birra iniziarono ad assumere un proprio schema, e lei si ritrovò intenta a calcolare il tempo tra gli scoppiettii, il volume di liquido rimanente e la velocità alla quale si muovevano le bollicine, vagamente visibili nella penombra della stanza.

      Zoe bevve un altro sorso, pensando che almeno questo sarebbe servito a due cose: uno, far sparire quelle bollicine scoppiettanti che la tormentavano così da vicino, e due, intontire i suoi sensi. E magari la prossima birra non avrebbe fatto così tanto rumore.

      Uno dei suoi gatti, Eulero a giudicare dal particolare rumore dei suoi artigli che affondavano delicatamente nel tessuto, si sistemò con noncuranza lungo lo schienale del divano e si allungò dietro di lei, appoggiando quasi silenziosamente il mantello caldo contro i suoi capelli corti. Quasi silenziosamente. In realtà, faceva rumore eccome. C’era un battito cardiaco, il suo respiro aveva un ritmo. Quei rumori erano lì, e Zoe sapeva che, avendo messo a tacere tutto il resto, ben presto avrebbe iniziato a contarli.

      Si spostò leggermente, allungando una mano per prendere il cellulare, che giaceva spento sul bracciolo del divano. Non lo accendeva da giorni. All’inizio, quando era appena rientrata dal caso che era terminato con la sua sospensione, l’aveva lasciato acceso. Erano arrivati messaggi, notifiche, avvisi; il dispositivo continuava a suonare, a vibrare e a irritarla a morte, e a un certo punto aveva deciso di spegnerlo. Poi aveva iniziato ad accenderlo una volta al giorno per leggere i messaggi prima di spegnerlo di nuovo. Ora non voleva fare più neanche quello. Era troppo.

      E comunque, Zoe non si aspettava nulla di nuovo. Aveva allontanato tutti, li aveva messi a tacere proprio come qualsiasi altro rumore, e col passare delle settimane avevano smesso di insistere. Non sarebbe arrivata nessuna novità nemmeno dal lavoro: dopo aver picchiato a sangue l’assassino che aveva tolto la vita alla sua partner, l’Agente Speciale Shelley Rose, l’Agente Speciale al Comando Maitland non aveva avuto altra scelta che sospenderla. Certo, era riuscita a risolvere il caso, ma quella era una magra consolazione. Non era sufficiente. Aveva lasciato che succedesse.

      Aveva lasciato che quell’uomo uccidesse Shelley proprio sotto il suo naso.

      Zoe si mosse sul divano, fissando il cellulare e calcolandone le dimensioni, il peso, il profilo di ciascun pulsante laterale. Preferiva addirittura i numeri a quei pensieri.

      E non era stato soltanto l’FBI a smettere di contattarla. Zoe era uscita con John per un tempo sufficiente a iniziare a fidarsi di lui; aveva persino programmato, fissato un appuntamento, per parlargli del suo rapporto con i numeri. Ma dopo la morte di Shelley non sembrava avere senso rivederlo.

      All’inizio aveva provato a chiamarla ogni giorno. Poi a scriverle, tre volte al giorno, poi due volte e infine una volta sola. I messaggi erano diminuiti rapidamente, fino a quando John non aveva smesso di provarci. Le aveva inviato un messaggio che ormai aveva memorizzato: ci sarò se/quando vorrai parlare.

      Sei parole. Ventisette caratteri. E quello era stato l’ultimo messaggio che lui le aveva inviato, ventisette giorni fa. Zoe lo sapeva perché il suo orologio interno non smetteva di contare: mancavano poche ore al ventottesimo giorno. Ogni giorno scivolava via con la medesima intollerabile lunghezza, un’identica misura che si allungava sia dietro che davanti a lei, ancora e ancora.

      Zoe si alzò per prendere la seconda birra e fece un salto, facendola quasi cadere per terra, quando sentì un pesante colpo alla porta. I numeri iniziarono immediatamente a sfrecciarle nel cervello: il peso del pugno che batteva alla porta, la velocità, la forza. E capì, senza alcun dubbio, di chi fosse quella mano.

      “Zoe?” Quella voce superò la porta d’ingresso e attraversò l’appartamento silenzioso. La dottoressa Francesca Applewhite si era presentata a casa sua ogni singolo giorno da quando era rientrata. Aveva bussato trentasei volte alla porta. Dato che la dottoressa Applewhite bussava quasi sempre seguendo uno schema di quattro colpi – uno, uno-due, uno – finora le sue nocche avevano sopportato ben centoquarantaquattro colpi singoli.

      Ma Zoe non aveva mai aperto la porta.

      “Zoe, voglio soltanto sentire la tua voce,” disse la dottoressa Applewhite. “Mi basta sapere che stai bene.”

      Zoe chiuse gli occhi. La voce della sua mentore oltrepassava la soglia a sessantacinque decibel, leggermente più alta rispetto al normale valore di una conversazione. Abbastanza forte da fare in modo che venisse sentita dall’altra parte della porta, nell’appartamento. Non c’era posto in cui Zoe potesse rifugiarsi per non sentire quella voce. C’era troppo poco spazio. Ci aveva provato.

      “Zoe!”

      Sessantanove decibel. Zoe si tappò le orecchie con le mani, cercando di respingere i numeri. “Vada via!” urlò, incapace di trattenersi. “Mi lasci in pace!”

      Sentì un delicato suono sul pianerottolo. “Va bene, Zoe.” Sessanta decibel. Una voce bassa e calma. “Ora me ne vado. Chiamami se hai bisogno di qualcosa.”

      Seguì una pausa di esitazione, come l’attesa di una risposta. Zoe non disse nulla. Infine, la dottoressa Applewhite si allontanò; Zoe contò i suoi passi fino alle scale, capendo dal rumore che facevano che la dottoressa Applewhite pesava ancora cinquantotto chili.

      Zoe si strofinò gli occhi con la mano e prese una birra dal frigo. La aprì e fece un lungo sorso, bevendone il più possibile in una volta sola. Quasi esattamente la metà, notò, stimando il volume con i propri occhi. Si voltò per guardare il divano ma non si mosse; l’appartamento adesso le sembrava eccessivamente angusto, uno spazio troppo ristretto per i suoi pensieri.

      Non poteva restare qui: non con tutti quei numeri, per tutto il resto della serata. Non poteva sentirli rimbombare inutilmente nella sua testa. Erano ovunque, e benché sapesse che l’avrebbero aspettata anche lì fuori, almeno quelli sarebbero stati nuovi.

      Dopo aver sentito l’ultimo passo della dottoressa Applewhite, attese diciassette minuti per concederle il tempo necessario per uscire dal quartiere, bevendo il resto della seconda birra e gettando la bottiglia nella spazzatura, dopodiché si infilò le scarpe.

***

      Zoe inciampò, quasi cadendo a causa di una pietra smossa sul ciglio del marciapiede. Guardando con più attenzione si rese conto che quella pietra in realtà era parte del marciapiede stesso, una piastrella male inserita in fase di costruzione. Non avrebbe dovuto esserci. Zoe si rimise dritta, cercando di evitare di inciampare nuovamente.

      Alzò lo sguardo e vide che aveva raggiunto il solito posto in cui finiva quando andava in giro di notte dopo aver bevuto. In questo caso anche mentre beveva, dato che aveva portato con sé il resto della confezione da sei e ormai era rimasta a mani vuote. Non era stata una camminata tanto breve, il che voleva dire che era venuta intenzionalmente da queste parti, anche se non riusciva a ricordare di aver preso quella decisione. Eppure era lì, di fronte a quella stessa casa.

      La casa davanti alla quale normalmente Zoe non si sarebbe mai permessa di fermarsi. Non era una coincidenza che ci venisse soltanto di notte, avvolta dall’oscurità, e quando l’alcol le placava un po’ il nervosismo. In questo modo era altamente improbabile che la vedessero, e lei poteva restarsene lì a crogiolarsi nei suoi sensi di colpa come una vigliacca, senza dover fare nulla.

      Non era certo quello che voleva. Zoe desiderava più

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