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disse Raymond tra sé e sé.

      O forse anche sì. Non era che lì tutti sapessero come fosse fatto Royce fisicamente. Potevano aver sentito parlare di lui, potevano anche aver udito una descrizione generica, ma tutti sapevano come fossero esagerate le storie.

      “Che idea stupida,” pensò Raymond.

      Il problema era che si trattava dell’unica idea che gli venisse in mente in quel momento. Sì, sarebbe stato pericoloso, perché Royce era un uomo braccato. Sì, avrebbe generato dei problemi per dopo: la gente si sarebbe sentita tradita quando l’avesse scoperto, alcuni avrebbero di certo abbandonato l’impresa. Ma la maggior parte probabilmente no. Molti si sarebbero sentito troppo legati alla causa una volta diventati parte dell’esercito, o sarebbero stati troppo impegnati a combattere per poterci anche solo pensare.

      “Potrebbero anche non vedere mai Royce da vicino,” ipotizzò Raymond.

      Si rese conto di aver preso una decisione senza averla esattamente considerata, e continuò lungo la strada verso il villaggio successivo. Ne scelse uno un paio di villaggi più in là, perché non voleva che si propagassero storie da Byesby, svelando quello che lui stava per fare. Questo villaggio era più grande, con una locanda e un grande granaio che faceva da magazzino generale. Era tanto largo che la vista di un uomo che entrava a cavallo nel villaggio non attirava la gente fuori dalle case, perché non era considerata una stranezza. Per questo Raymond dovette portarsi al centro della piazza del paese e chiamare più e più volte perché la gente venisse da lui.

      “Ascoltate tutti. Ascoltatemi! Ho delle novità!”

      Aspettò fino a che la gente non si fu raccolta attorno a lui prima di cominciare a parlare.

      “Sta arrivando la guerra!” disse. “Avete sentito le storie: che il figlio del vero re è tornato, e ha destituito il duca che saccheggiava la vostra gente! Beh, è vero, e so cosa state pensando. Pensate che sia solo un’altra rappresaglia tra nobili nella quale non c’entrate nulla. Ma io sono qui a dirvi che invece avete un ruolo in essa. Questa è diversa.”

      “Oh, e come sarebbe?” chiese un uomo dalle retrovie della folla che cresceva sempre più. Raymond aveva la sensazione che le cose potessero prendere la stessa piega di prima.

      “Perché questa è una possibilità di cambiare veramente le cose. Perché questa non è una zuffa tra nobili, ma un’occasione per creare un mondo che non sia fatto di una manciata di nobili che ci tengono in pugno. Perché questa è una lotta dove la gente coinvolta è realmente interessata alla gente come voi, alla gente come noi tutti.”

      “Davvero?” chiese l’uomo. “Bene, straniero, chi sei allora, dato che sai tante cose?”

      Raymond fece un respiro profondo, sapendo che quello era il momento in cui decidere se fare o meno quello che aveva pensato, e una volta fatto non avrebbe potuto tornare indietro.

      “Andiamo,” chiese l’uomo. “Chi sei per dire che qualche nobile lontano si cura veramente di quello come noi?”

      “È semplice,” rispose Raymond, e questa volta la sua voce risuonò davvero nel villaggio in modo che tutti potessero sentire. “Mi chiamo Royce, e sono il figlio di re Filippo, il vero e legittimo re di questa terra!”

      CAPITOLO CINQUE

      Royce stava camminando in mezzo alla foresta, gli alberi che si mescolavano e confondevano tra loro tanto che era difficile scorgere il sentiero. Si era perso, e in qualche modo sapeva che perdersi in questo posto significava morire.

      Continuò ad avanzare, non sapendo cos’altro fare. Attorno a lui ora gli alberi si stavano chiudendo, e i loro rami sbattevano e si scuotevano, mossi da un vento invisibile, spingendolo e frustandolo. I rami gli laceravano la pelle, e ora c’erano anche dei rovi insieme ai rami, che lo colpivano e lo trattenevano. Gli ci voleva uno sforzo immane per andare avanti.

      Ma perché continuare? Non sapeva dove si trovava, quindi perché avanzare a quel modo, in mezzo al buio e all’incertezza della foresta? Gli si stavano esaurendo le forze, quindi perché non sedersi sul ceppo di un albero, aspettare di riprendere fiato e…

      “Fermarsi è morire, figlio mio.” La voce arrivò dagli alberi, e anche se l’aveva sentita solo nei suoi sogni, Royce la riconobbe subito come quella di suo padre. Si girò verso il punto da cui era venuto il suono e continuò a camminare.

      “Padre, dove sei?” chiamò, andando in direzione della voce.

      Il passaggio era, se possibile, ancora più difficile lì. C’erano alberi caduti da gestire e Royce aveva sempre più difficoltà a saltarli e scavalcarli. C’erano rocce che sporgevano dal suolo della foresta, e ora sembrava che Royce dovesse più scalare che camminare per passare oltre. Il sentiero davanti a lui era ancora impossibile da distinguere dal resto della foresta, e la disperazione che gli veniva dal non sapere dove andare era schiacciante.

      Fu a quel punto che vide il cervo bianco davanti a sé. Sembrava in attesa e lo guardava con trepidazione. Con la medesima strana certezza che aveva provato prima, Royce sapeva che quell’animale era lì per mostrargli la strada. Si voltò per seguirlo, correndogli dietro.

      Il cervo bianco era veloce e Royce doveva metterci tutto se stesso per tenere il passo. Aveva come l’impressione che i polmoni potessero esplodergli nel petto per lo sforzo, e anche le gambe erano in fiamme. Lo stesso continuò a correre in mezzo ai rami che lo frustavano, arrivando a uno spazio dove il cervo scomparve, sostituito da una figura con un’armatura contornata da luce bianca.

      “Padre,” disse Royce, ansimando nell’emettere la parola. Gli sembrava di non avere più fiato, di non avere più tempo.

      Suo padre annuì e gli sorrise, poi, inspiegabilmente, indicò verso l’alto. “Ora devi andare, Royce. Spingi, spingi verso la luce.”

      Guardando in su, Royce vide una luce sopra di sé, e mentre provava a fare come suo padre aveva detto, la luce si fece sempre più vicina…

      ***

      Royce emerse con un respiro sputacchiante che sembrava contenere acqua e aria nella medesima quantità. Sputò l’acqua marina e fece per mettersi seduto, ma delle mani attente lo tennero fermo al suo posto. Royce lottò contro quella stretta per un momento, ma poi si rese conto che era Mark che gli stava premendo l’acqua fuori dallo stomaco.

      “Attento,” gli disse l’amico, “o farai rovesciare la zattera.”

      La zattera in questione non era altro che un pezzo dell’albero della nave che si era spezzato nel caos, aggrovigliato poi con altri pezzi di legno alla deriva per formare una temporanea piattaforma galleggiante che ora le onde stavano facendo dondolare su e giù.

      Bolis, Neave e Matilde erano inginocchiati sull’imbarcazione di fortuna, con Gwylim poco più in là e Bragia che volava sopra di loro. Matilde aveva una ferita sul fianco che sembrava essere stata procurata da un coltello o da un pezzo di legno, e comunque fosse, il sangue stava scorrendo in acqua mentre Neave trafficava sopra di lei, tagliando pezzi di vela e trasformandoli in bende. Sir Bolis stava cercando frettolosamente di incastrare un pezzo di metallo in un bastone di legno per formare una sorta di rudimentale arpione. Non c’era traccia della sua armatura o delle sue armi.

      Royce abbassò lo sguardo e vide la spada di cristallo ancora al suo fianco e constatò di avere ancora addosso l’armatura che aveva preso dalla torre del conte di Undine.

      “Non so come tu abbia fatto a nuotare con quella roba addosso,” gli disse Mark, “ma ce l’hai fatta. Sei saltato su come un pezzo di sughero e ti ho tirato fuori.”

      “Grazie,” gli disse Royce, offrendo la mano all’amico.

      Mark la strinse con forza. “Dopo tutte le volte che tu hai salvato me, non c’è bisogno che mi ringrazi. Sono solo contento che tu sia sopravvissuto.”

      “Per ora,” disse Bolis dalla poppa della loro zattera. “Siamo ancora in pericolo.”

      Royce

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