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si era ripresa, aveva raccontato alla polizia e all’FBI la sua storia. Ma a quel punto suo padre era sparito da tempo e con lui se n’era andata anche ogni speranza di acciuffarlo. Jessica era stata inserita nel programma protezione testimoni a Las Cruces con gli Hunt. Jessica Thurman era diventata Jessie Hunt ed era iniziata per lei una nuova vita.

      Jessie si scosse dalla testa quei ricordi, passando dai pugni ai calci. Accolse il dolore che derivava da quello sforzo e a ogni calcio l’immagine della pelle pallida e priva di vita di sua madre si dissolse a poco a poco. Poi un altro ricordo le si accese nella memoria, quello dell’ex marito Kyle che la aggrediva nella loro stessa casa, cercando di ucciderla e incastrarla per l’omicidio della sua amante. Jessie poteva quasi sentire ancora il bruciore dell’attizzatoio del caminetto che le si piantava nel lato sinistro dell’addome.

      Il dolore fisico di quel momento andava a braccetto con l’umiliazione che Jessie ancora provava per aver passato dieci anni di relazione con un sociopatico senza neanche rendersene conto. Dopotutto lei doveva essere un’esperta nell’identificare quel genere di persone.

      Jessie eliminò anche quel pensiero, sperando di cacciare dalla mente anche la vergogna passando a una serie di colpi di gomito mirati alla mandibola di un ipotetico assalitore. Le spalle stavano iniziando a farle davvero male, ma lei continuò a battere colpi contro il sacco, sapendo che la sua mente sarebbe stata presto troppo stanca per essere angosciata.

      Questa era la parte di sé che non si era aspettata di scoprire all’FBI: l’aggressività fisica. Nonostante le apprensioni standard che provava quando era arrivata, aveva pensato che se la sarebbe cavata bene nella parte accademica del programma. Aveva appena trascorso tre anni in quell’ambiente, immersa nella psicologia criminale.

      E aveva avuto ragione. Le lezioni di legge, scienza forense e terrorismo le erano venute facili. Anche il seminario in scienza comportamentale, dove gli insegnanti erano eroi per lei e dove pensava che sarebbe stata nervosa, si era rivelato naturale. Ma erano state le lezioni di allenamento fisico e di autodifesa che l’avevano davvero sorpresa.

      I suoi istruttori le avevano insegnato che con quasi un metro e ottanta di altezza e 65 chili di peso aveva la struttura per confrontarsi con i maggiori criminali, se fosse stata debitamente preparata. Probabilmente non avrebbe mai avuto le abilità nel combattimento corpo a corpo di una veterana ex soldato delle Forze Speciali come Kat Gentry, ma aveva lasciato il corso con la certezza di sapersi difendere nella maggior parte delle situazioni.

      Jessie si tolse i guantoni e andò al tapis roulant. Lanciando un’occhiata all’orologio vide che erano quasi le otto di sera. Decise che una bella corsa di 7 o 8 chilometri le sarebbe stata sufficiente per poter dormire senza fare brutti sogni. Era una priorità, dato che avrebbe ricominciato a lavorare il giorno dopo, e sapeva che tutti i colleghi le avrebbero sicuramente rotto le scatole aspettandosi che lei fosse una specie di supereroe dell’FBI adesso.

      Impostò il tempo in quaranta minuti e diede il massimo per completare otto chilometri con un ritmo di circa 12 chilometri all’ora. Poi alzò il volume nelle cuffiette. Quando i primi secondi di ‘Killer’ di Seal partirono, la mente le si svuotò e Jessie si concentrò solo sul compito che aveva davanti. Era completamente ignara del titolo della canzone o di qualsiasi ricordo personale questa potesse risvegliare. C’erano solo il ritmo e le sue gambe che correvano in armonia con esso. Era la situazione più vicina al senso di pace che Jessie potesse pensare di ottenere.

      CAPITOLO OTTO

      Eliza Longworth si presentò alla porta di Penny il più rapidamente possibile. Erano quasi le otto di mattina, l’ora in cui in genere arrivava la loro insegnante di yoga.

      Era stata una notte per lo più insonne. Solo alle prime luci del giorno le era parso di percepire quale fosse la strada giusta da percorrere. Una volta presa la decisione, Eliza sentì un peso che le si levava di dosso.

      Aveva mandato un messaggio a Penny per dirle che la lunga notte le aveva concesso il tempo per pensare e riconsiderare se fosse stata troppo frettolosa a porre fine alla loro amicizia. Avrebbero dovuto fare la lezione di yoga. E poi, quando la loro insegnante Beth se ne fosse andata, avrebbero potuto trovare un modo per sistemare le cose.

      Penny non aveva risposto, ma questo non aveva impedito ad Eliza di andare comunque da lei. Quando raggiunse la porta, vide l’auto di Beth risalire la via del quartiere mentre la donna le faceva un cenno di saluto.

      “Penny!” gridò mentre bussava alla porta. “Beth è arrivata. Siamo sempre d’accordo per la lezione di yoga?”

      Non ci fu risposta, quindi premette il pulsante del campanello e agitò le braccia davanti alla videocamera.

      “Penny, posso entrare? Dovremmo parlare un secondo prima che arrivi Beth.”

      Ancora nessuna risposta, e Beth era a un centinaio di metri di distanza dalla casa, in fondo alla strada, quindi Eliza decise di entrare. Sapeva della chiave di scorta nascosta, ma tentò comunque di spingere la porta per vedere se fosse già aperta. Lo era. Entrò, lasciando l’ingresso aperto per Beth.

      “Penny,” chiamò. “Hai lasciato la porta aperta. Beth sta arrivando. Ti è arrivato il mio messaggio? Possiamo parlare in privato un minuto prima di iniziare?”

      Entrò nell’atrio e aspettò. Ancora nessuna risposta. Passò allora in salotto, dove di solito facevano la loro lezione di yoga. Anche quello era vuoto. Stava per andare verso la cucina, quando Beth entrò.

      “Signore, sono qui!” salutò dalla porta.

      “Ciao Beth,” disse Eliza volandosi per salutarla. “La porta era aperta, ma Penny non risponde. Non sono sicura di cosa stia succedendo. Magari si è addormentata, oppure è in bagno o qualcosa del genere. Posso controllare di sopra se intanto vuoi prenderti qualcosa da bere. Ci metto un minuto.”

      “Nessun problema,” disse Beth. “La mia cliente delle nove e mezza ha annullato la lezione, quindi non sono di fretta. Dille di fare con comodo.”

      “Perfetto,” disse Eliza iniziando a salire le scale. “Dacci solo un minuto.”

      Era quasi a mezza rampa quando si chiese e non avesse dovuto forse prendere l’ascensore. La camera da letto era al terzo piano e lei non era proprio entusiasta di quella scarpinata. Prima di poterci veramente ripensare, sentì un grido provenire dal piano di sotto.

      “Cosa c’è?” esclamò mentre si girava e correva giù.

      “Sbrigati!” strillò Beth. “Oh santo Dio! Veloce!”

      La sua voce veniva dalla cucina. Eliza partì di corsa non appena fu alla base delle scale, attraversando il salotto e svoltando l’angolo con la cucina.

      Sul pavimento della cucina in ceramica spagnola c’era un’enorme pozza di sangue, al centro della quale era riverso il corpo di Penny. Aveva gli occhi spalancati nel terrore, il corpo contorto in un orribile spasmo di morte.

      Eliza corse accanto alla sua più cara amica, scivolando sul denso liquido. Il piede scivolò di lato e lei cadde di peso a terra, facendo spruzzare sangue ovunque.

      Cercando di controllare gli sforzi di vomito, mise le mani sul petto di Penny. Anche con gli abiti addosso, era fredda. Nonostante tutto Eliza la scosse, come se in qualche modo fosse possibile svegliarla.

      “Penny,” la implorò. “Svegliati!”

      L’amica non rispose. Eliza sollevò lo sguardo verso Beth.

      “Sai come si pratica la rianimazione?” le chiese.

      “No,” disse la donna con voce tremante, scuotendo la testa. “Ma penso sia troppo tardi.”

      Ignorando il commento, Eliza cercò di ricordare la lezione di rianimazione che aveva seguito anni prima. Era rivolta al soccorso dei bambini, ma di sicuro si potevano applicare gli stessi principi. Aprì la bocca di Penny, le reclinò la testa all’indietro, le chiuse il naso e soffiò con forza nella gola dell’amica.

      Poi le si

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