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Thor. Ma Thor rotolò via, portandosi sopra al mostro. Thor lo teneva, strangolandolo con entrambe le mani, mentre la bestia tentava di sollevare la testa, facendo schioccare le zanne. Lo mancò. Thor, pervaso da una nuova forza, affondò le mani nel collo del mostro senza lasciarlo più andare. Lasciò che l’energia gli scorresse nel corpo. E subito, straordinariamente, si sentì più forte del mostro.

      Stava strangolando a morte il Sybold. Alla fine la bestia si afflosciò.

      Thor tenne ben salda la presa per un altro minuto buono.

      Si alzò poi lentamente, senza fiato, guardando verso il basso con gli occhi sgranati, tenendosi il braccio ferito. Non poteva credere a ciò che era appena successo. Aveva veramente ucciso lui, Thor, un Sybold?

      Sentiva che era un segno, in questo giorno dei giorni. Avvertiva che era accaduto qualcosa di grandioso. Aveva appena ucciso il più leggendario e temuto mostro del suo regno. A mani nude. Senza un’arma. Non sembrava reale. Nessuno lo avrebbe creduto.

      Rimase lì, barcollante, domandandosi quale potere lo avesse sostenuto, cosa ciò significasse, chi lui fosse veramente. Le uniche persone note per possedere un potere come quello erano i druidi. Ma suo padre e sua madre non erano druidi, quindi lui non poteva esserlo.

      O forse poteva?

      Thor improvvisamente avvertì una presenza alle sue spalle, e si voltò per vedere Argon, lì in piedi, che guardava l’animale.

      “Come sei arrivato qui?” chiese Thor sorpreso.

      Argon lo ignorò.

      “Hai visto cos’è successo?” chiese Thor, ancora incredulo. “Non so come ho fatto.”

      “E invece lo sai,” rispose Argon. “Dentro di te, lo sai. Tu sei diverso dagli altri.”

      “È stato come un’ondata di potere.” disse Thor. “Come una forza che non sapevo di avere.”

      “Il campo di energia,” disse Argon. “Un giorno arriverai a conoscerlo meglio. Potrai addirittura imparare a controllarlo.”

      Thor si strinse nelle spalle, il dolore era lancinante. Guardò verso il basso e vide la sua mano ricoperta di sangue. Si sentiva stordito, aveva paura di cosa gli sarebbe successo se non avesse trovato un aiuto.

      Argon fece tre passi in avanti e afferrò la mano libera di Thor, appoggiandola saldamente sulla ferita. La tenne lì, piegò indietro la testa e chiuse gli occhi.

      Thor sentì una sensazione di calore scorrergli attraverso il braccio. In pochi secondi il sangue appiccicoso sul braccio si asciugò e il dolore iniziò a svanire.

      Guardò in basso e non riuscì a capire: era guarito. Tutto ciò che rimaneva erano tre cicatrici laddove gli artigli lo avevano graffiato, ma sembravano vecchie di parecchi giorni. La ferita si era cicatrizzata. Non cera più sangue.

      Thor guardò Argon con stupore.

      “Come hai fatto?” chiese.

      Argon sorrise.

      “Io non ho fatto nulla. Tu l’hai fatto. Io ho solo diretto il tuo potere.”

      “Ma io non ho il potere di guarire,” rispose Thor, confuso.

      “Davvero?” rispose Argon.

      “Non capisco. Tutto questo non ha senso,” disse Thor, sempre più impaziente. “Per favore, dimmi qualcosa.”

      Argon distolse lo sguardo.

      “Alcune cose le imparerai nel tempo.”

      A Thor venne in mente una cosa.

      “Questo significa che posso entrare nella Legione del Re?” chiese trepidante. “Sicuramente, se sono capace di uccidere un Sybold, posso tenere testa a ragazzi come me.”

      “Certo che puoi,” rispose.

      “Ma loro hanno scelto i miei fratelli, non me.”

      “I tuoi fratelli non avrebbero potuto uccidere questo mostro.”

      Thor guardò oltre, pensieroso.

      “Ma mi hanno già rifiutato. Come posso unirmi a loro?”

      “Da quando un guerriero ha bisogno di un invito?” chiese Argon.

      Le sue parole rimasero sospese. Thor sentì che il corpo gli si scaldava.

      “Mi stai dicendo che posso semplicemente presentarmi così? Senza invito?”

      Argon sorrise.

      “Sei tu che crei il tuo destino. Non gli altri.”

      Thor sbatté gli occhi, e un attimo dopo Argon non c’era più.

      Thor non ci poteva credere. Si guardò attorno in ogni direzione, ma non c’era traccia di Argon.

      “Da questa parte!” lo raggiunse una voce.

      Thor si voltò e vide davanti a sé un grande macigno. La voce sembrava provenire dalla cima, e lui subito vi si arrampicò.

      Raggiunse la cima, ma fu perplesso nel non trovare segno di Argon.

      Da lì, però, poteva vedere al di sopra delle cime degli alberi di Boscoscuro. Vide dove terminava il bosco, vide il secondo sole tramontare in un verde scuro e, al di là, la strada che conduceva alla Corte del Re.

      “Quella è la strada che devi percorrere,” disse la voce. “Se ne hai il coraggio.”

      Thor si voltò, ma non vide nulla. Era solo una voce. Ma sapeva che Argon era lì da qualche parte, ad incitarlo. E sentiva, dentro di sé, che era giusto così.

      Senza ulteriori esitazioni, Thor scese dalla roccia e si mise in cammino attraverso il bosco, diretto verso la strada.

      Di corsa incontro al suo destino.

      CAPITOLO TRE

      Re MacGilc – robusto, il torace largo, la barba fitta e troppo grigia, abbinata a capelli lunghi e la fronte ampia segnata da troppe – stava sul bastione più alto del suo castello, la sua regina accanto a lui, e controllava i festeggiamenti del giorno della fioritura. I suoi territori reali si estendevano sotto di lui in tutta la loro magnificenza, fino a dove gli occhi potevano vedere: una città florida, cinta da mura fortificate di pietra antica. La Corte del Re. Collegati da un intrico di tortuose strade vi si trovavano edifici di pietra di ogni forma e misura, per i guerrieri, i guardiani, i cavalli, l’Argento, la Legione, le guardie, le caserme, l’armeria, l’arsenale, e tra queste si trovavano centinaia di abitazioni per la moltitudine di persone che avevano scelto di vivere all’interno delle mura. Qua e là trovavano posto ampi acri di prato, giardini reali, piazze contornate di pietra, fontane straripanti. La Corte del Re veniva curata da secoli: da suo padre, e dal padre di suo padre prima di lui, e si trovava ora al picco della sua gloria. Senza dubbio era ora la più sicura fortezza all’interno del Regno Occidentale dell’Anello.

      MacGil aveva la fortuna di possedere i migliori e più leali guerrieri che ogni re avesse mai incontrato, e nella sua vita nessuno aveva mai osato attaccare. Era il settimo MacGil al trono e lo deteneva da ben trentadue anni in qualità re buono e saggio. La terra aveva prosperato in maniera grandiosa nel suo regno, lui aveva raddoppiato la misura del suo esercito, aveva espanso le sue città, portato abbondanza alla sua popolazione, e dalla gente non proveniva una singola lamentela. Era conosciuto come il re generoso, e non c’era mai stato un pari periodo di abbondanza e pace da quando lui era salito al trono.

      La cosa, paradossalmente, era proprio ciò che teneva MacGil sveglio la notte. Perché MacGil conosceva la sua storia: in tutte le epoche non c’era mai stato un periodo così lungo senza una guerra. Ormai non si chiedeva più se ci sarebbe stato un attacco, ma quando. E da parte di chi.

      La minaccia maggiore, ovviamente, proveniva dai territori esterni all’Anello, dall’Impero dei barbari che governavano le Regioni Selvagge periferiche e che avevano soggiogato tutte le popolazioni al di fuori

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