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di servizio aveva un’espressione spaventata mentre tendeva le mani.

      “Io non lo tocco!” disse. “Mettetelo laggiù, nella fossa insieme agli altri appestati!”

      Le guardie lo guardarono con sguardo interrogativo.

      “Ma non è ancora morto,” risposero.

      La guardia di servizio lanciò loro un’occhiataccia.

      “Pensate che mi interessi?”

      Le guardie si scambiarono uno sguardo poi fecero come gli era stato detto, trascinandolo attraverso il corridoio e gettandolo in una grande fossa. Godfrey vide che era piena di corpi, tutti ricoperti dalla stessa fascia rossa.

      “E se cerca di scappare?” chiesero le guardie prima di voltarsi.

      Il soldato mostrò un sorriso crudele.

      “Non sapete cosa fa la peste agli uomini?” chiese. “Entro mattina sarà morto.”

      Le due guardie si voltarono e se ne andarono e Godfrey guardò l’appestato che giaceva tutto solo nella fossa non sorvegliata. Subito gli venne un’idea. Era un’idea folle, ma proprio per questo avrebbe potuto funzionare.

      Si voltò verso Akorth e Fulton.

      “Datemi un pugno,” disse.

      I due compagni si scambiarono uno sguardo confuso.

      “Vi ho detto di darmi un pugno!” disse Godfrey.

      Loro scossero la testa.

      “Sei pazzo?” chiese Akorth.

      “Io non ti do nessun pugno,” disse Fulton, “per quanto te lo meriteresti.”

      “Vi sto dicendo di darmi un pugno!” chiese Godfrey. “Forte. In faccia. Spaccatemi il naso! ADESSO!”

      Ma Akorth e Fulton si voltarono.

      “Hai perso il cervello,” dissero.

      Godfrey si voltò verso Merek ed Ario, ma anche loro si fecero indietro.

      “Di qualsiasi cosa si tratti,” disse Merek, “non voglio esserne parte.”

      Improvvisamente uno dei prigionieri nella cella si gettò su Godfrey.

      “Non ho potuto fare a meno di sentire,” disse ghignando e mostrando un sorriso privo di qualche dente, alitandogli il suo fiato stantio in viso. “Sarò più che felice di darti un pugno, almeno chiuderai il becco! Non c’è bisogno che tu me lo chieda due volte.”

      Il prigioniero ruotò e colpì Godfrey al naso con le sue nocche ossute. Godfrey provò un forte dolore passargli attraverso il cranio e gridò portandosi le mani al naso. Il sangue gli colava su tutta la faccia gocciolandogli sulla camicia. Il dolore gli arrivava agli occhi, annebbiandogli la vista.

      “Ora mi serve quella fascia,” disse Godfrey voltandosi verso Merek. “Puoi prendermela?”

      Merek, confuso, seguì il suo sguardo dall’altra parte del corridoio, dove il prigioniero giaceva privo di conoscenza nella fossa.

      “Perché?” gli chiese.

      “Fallo e basta,” disse Godfrey.

      Merek corrugò la fronte.

      “Se potessi legare qualcosa insieme forse potrei raggiungerla,” disse. “Qualcosa di lungo e fino.”

      Merek si portò la mano al colletto e ne estrarre un fil di ferro. Lo srotolò constatando che era abbastanza lungo per il suo scopo.

      Si appoggiò contro le sbarre della cella, con sufficiente attenzione da non allertare la guardia, e allungò il fil di ferro cercando di agganciare la stola. Lo spinse a terra ma arrivò a pochi centimetri dall’obiettivo.

      Provò ripetutamente, ma continuava a trovarsi incastrato con il gomito tra le sbarre. Le sue braccia non erano abbastanza fine.

      La guardia si voltò verso di lui e Merek ritrasse velocemente il ferro prima che potesse vederlo.

      “Fammi provare,” disse Ario facendosi avanti mentre la guardia si voltava di nuovo dall’altra parte.

      Ario afferrò il lungo filo di ferro e fece passare il braccio tra le sbarre: era molto più magro e lo fece scorrere fino alla spalla.

      Quei pochi centimetri in più erano proprio ciò di cui avevano bisogno. L’uncino si impigliò all’estremità della stola rossa e Ario iniziò a tirarla verso di lui. Si fermò quando la guardia, rivolta verso un’altra direzione e mezza appisolata, scosse la testa, la sollevò e si guardò in giro. Attesero tutti, sudando e pregando che non si girasse verso di loro. Attesero per quella che parve loro un’eternità, finché alla fine la guardia riabbassò la testa e si riappisolò.

      Ario tirò la fascia sempre più vicina, facendola strisciare sul pavimento della prigione fino a portarla nella cella attraverso le sbarre.

      Godfrey la prese e la indossò e tutti si allontanarono da lui spaventati.

      “Cosa diavolo stai facendo?” chiese Merek. “Quella fascia è infettata dalla peste. Potresti contagiarci tutti.”

      Anche gli altri prigionieri nella cella si fecero indietro.

      Godfrey si rivolse a Merek.

      “Inizierò a tossire e non ho intenzione di fermarmi,” disse con indosso la fascia e con l’idea che gli si faceva sempre più definita in mente. “Quando la guardia arriverà vedrà il mio sangue sulla fascia e voi gli direte che ho la peste e che hanno fatto un errore a non separarmi dagli altri.”

      Godfrey non attese tempo. Iniziò a tossire violentemente, prendendo il sangue dal volto e strofinandolo su se stesso per assumere un aspetto peggiore. Tossì più forte che mai fino a che sentì la porta della cella aprirsi e la guardia entrare.

      “Fate stare zitto il vostro amico,” disse la sentinella. “Chiaro?”

      “Non è nostro amico,” rispose Merek. “È uno che abbiamo conosciuto qui. Un appestato.”

      La guardia, sorpresa, abbassò lo sguardo e notò la fascia rossa, quindi sgranò gli occhi.

      “Come ha fatto a entrare qui?” chiese. “Avrebbero dovuto separarlo.”

      Godfrey tossì sempre più forte, tutto il corpo scosso da spasmi di tosse.

      Presto sentì delle mani ruvide che lo afferravano e trascinavano fuori, spingendolo. Inciampò nel corridoio e con un’ultima spinta venne gettato all’interno della fossa con le vittime della peste.

      Rimase sdraiato sopra i corpi infetti, cercando di non respirare troppo rumorosamente, cercando di voltare la testa dall’altra parte e non inalare la malattia di quei corpi. Pregò Dio di non essere contagiato. Sarebbe stata una lunga notte, sdraiato lì.

      Ma ora non lo stava più guardando nessuno. E quando fosse giunta la luce del giorno, si sarebbe alzato.

      E avrebbe colpito.

      CAPITOLO OTTO

      Thorgrin si sentiva tirare verso il fondo dell’oceano, la pressione gli schiacciava le orecchie mentre scendeva nell’acqua ghiacciata e si sentiva come trafitto da milioni di pugnali. Eppure mentre precipitava sempre più a fondo successe la cosa più strana: non cresceva il buio, ma la luce si faceva più chiara. Mentre si dimenava affondando, schiacciato dal peso del mare, abbassò lo sguardo e fu scioccato di vedere, in una nuvola di luce, l’ultima persona che si sarebbe aspettato di vedere lì: sua madre. Gli sorrideva, la luce così intensa da fare fatica a guardarla, allungando le braccia verso di lui che cadeva proprio verso di lei.

      “Figlio mio,” gli disse con voce cristallina nonostante l’acqua. “Sono qui con te. Ti voglio bene. Non è ancora giunta la tua ora. Sii forte. Hai superato la prova, ma c’è ancora molto da fare. Affronta il mondo e non dimenticare mai chi sei. Non dimenticare

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