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discosto nell’ombra si sentiva sicuro che nessuno potesse vederlo. I viali e i marciapiedi e i vicoli vuoti dei famigerati bassifondi musulmani erano bagnati da una fitta pioggia gelida che aveva smesso di scendere forse una decina di minuti prima.

      Quel posto era una città fantasma, quella notte.

      Sul viale, l’auto della polizia si scostò dal marciapiede e si immise silenziosamente in strada. Non c’era altro traffico.

      Una punta di agitazione – era quasi paura – percorse il corpo di Jamal mentre guardava la polizia. Non avevano ragione di infastidirlo. Non stava infrangendo nessuna legge. Era un uomo ben vestito in abito scuro e scarpe di pelle italiane, con il viso ben rasato. Poteva essere un uomo d’affari, o il proprietario di quei bassi caseggiati tutto intorno a lui. Non era il tipo che la polizia casualmente fermava e perquisiva. Eppure Jamal era già caduto nelle mani delle autorità in passato – non lì in Belgio, ma in altri posti. Erano state esperienze sgradevoli, per usare un eufemismo. Una volta aveva trascorso dodici ore ad ascoltarsi urlare di agonia.

      Scosse il capo per scacciare quei pensieri oscuri, finì la sigaretta in tre profondi tiri, ignorò il bidone della spazzatura e lanciò il mozzicone a terra. Si voltò per percorrere il vicolo. Superò un cartello rotondo e rosso con una striscia bianca orizzontale – VIETATO L’ACCESSO. La strada era troppo stretta per il traffico automobilistico. Se la polizia avesse improvvisamente deciso di volerlo inseguire, sarebbe stata costretta a muoversi a piedi. Oppure a fare un giro di molti isolati. Per quando fossero tornati, lui non ci sarebbe stato più.

      Dopo cinquanta metri, svoltò rapidamente e aprì con la chiave l’entrata di un edificio particolarmente fatiscente. Salì tre strette rampe finché le scale non morirono su una spessa porta rinforzata in acciaio. Le scale erano vecchie, fatte di legno e assurdamente contorte. L’intera rampa sembrava attorcigliarsi di qua e di là come una caramella toffee, dando la sensazione della casa dei divertimenti di un luna park.

      Jamal fece il pugno e batté contro la porta pesante, e i colpi arrivarono secondo un’attenta sequenza:

      BANG-BANG. BANG-BANG.

      Si fermò per qualche secondo.

      BANG.

      Si aprì uno spioncino e vi apparve un occhio. L’uomo dall’altra parte grugnì, verificando chi fosse. Jamal ascoltò la guardia girare chiavi nelle serrature, poi rimuovere la sbarra in acciaio incuneata al pavimento sul fondo della porta. Per la polizia sarebbe stato molto difficile entrare in quell’appartamento, se i loro sospetti mai vi fossero caduti sopra.

      “As salaam alaikum,” disse Jamal entrando.

      “Wa alailkum salaam,” disse l’uomo che aveva aperto la porta. Era alto e massiccio. Indossava una lercia t-shirt senza maniche, pantaloni da lavoro e stivali. Una folta barba mal tenuta gli copriva la faccia, andando incontro alla massa di capelli neri e ricci del cuoio capelluto. Aveva gli occhi spenti. Era tutto ciò che l’uomo magro non era.

      “Come sembrano messi?” disse Jamal in francese.

      L’uomo grosso fece spallucce. “Bene, penso.”

      Jamal attraversò una tenda di perline, percorse un breve corridoio ed entrò in una stanza piccola – che sarebbe stata un soggiorno se quel posto fosse stato occupato da una famiglia. La squallida stanza era piena di uomini giovani, tutti con addosso t-shirt, magliette delle loro squadre di calcio europee preferite, pantaloni della tuta e sneakers. Faceva caldo ed era umido nella stanza, forse per la prossimità di tutti quei corpi in uno spazio ristretto. Lì dentro sapeva da calzini sudati insieme a odore di corpi.

      Nel centro della stanza, su un ampio tavolo di legno, si trovava un dispositivo fatto d’argento a forma di proiettile. Era lungo circa un metro e largo meno di mezzo metro. Jamal aveva trascorso del tempo in Germania e in Austria, e quel dispositivo gli ricordava un piccolo fusto di birra. In realtà tranne che per il peso – era piuttosto leggero – era una replica molto, molto buona di una testata nucleare americana W80.

      Due giovani erano al tavolo, mentre gli altri giravano intorno e osservavano. Uno se ne stava in piedi davanti a un piccolo laptop montato all’interno di una valigia d’acciaio. La valigia aveva un pannello che correva lungo il laptop – c’erano due interruttori, due luci al LED (una rossa e una verde) e un quadrante costruiti nel pannello. Un cavo andava dalla valigia a un altro pannello lungo il lato della testata. L’intero dispositivo – la valigia e il laptop in essa contenuto – erano conosciuti come un UC 1583. Era un dispositivo progettato per un unico compito – comunicare con un’arma nucleare.

      Il secondo uomo era curvo su una busta bianca sul tavolo. Portava un costoso microscopio digitale sull’occhio, e lentamente esaminava la busta, in cerca di ciò che, lo sapeva, doveva esserci – un minuscolo puntino, non più grande di quello che viene posto alla fine di una frase, nel quale era incorporato il codice che avrebbe armato e attivato la testata.

      Jamal si avvicinò per guardare.

      Il giovane con il microscopio lentamente esaminava la busta. Ogni qualche secondo si copriva il microscopio con la mano e dava un’occhiata su una scala maggiore con l’occhio scoperto, in cerca di macchie d’inchiostro, imperfezioni, di qualsiasi puntino probabilmente sospetto. Poi si rituffava nel lavoro col microscopio.

      “Aspettate,” sussurrò sottovoce. “Aspettate…”

      “Dai,” disse il suo partner con un’aria di impazienza nella voce. Venivano giudicati non solo per l’accuratezza, ma per le tempistiche. Quando fosse giunto il loro momento, sarebbero stati costretti ad agire molto rapidamente.

      “Ce l’ho.”

      Adesso alle strette c’era il partner. A memoria, il giovane digitò una sequenza che abilitava il laptop ad accettare un codice di armamento. Gli tremavano le mani. Fu abbastanza nervoso da pasticciare la sequenza al primo tentativo, cancellare, e ricominciare da capo.

      “Okay,” disse. “Dimmi.”

      Molto lentamente e chiaramente, l’uomo col microscopio lesse una sequenza di dodici numeri. L’altro digitò ogni numero a mano a mano che veniva detto. Dopo dodici, il primo disse “Finito.”

      Adesso l’uomo al laptop passò per un’altra breve sequenza, azionò i due interruttori e girò la manopola. La luce al LED verde sul pannello si accese.

      Il giovane sorrise e si voltò verso il suo istruttore.

      “Armato e pronto al lancio,” disse. “Se Dio vuole.”

      Anche Jamal sorrise. Lì lui era un osservatore – era venuto a vedere i progressi delle reclute. Erano credenti veri che si preparavano per quella che probabilmente era una missione suicida. Se i codici venivano inseriti erroneamente, le testate potevano semplicemente spegnersi – ma potevano anche autodistruggersi, diffondendo una letale nuvola radioattiva e uccidendo chiunque nelle vicinanze.

      Nessuno era sicuro di cosa sarebbe accaduto nell’eventualità di un codice sbagliato. Erano tutte voci e speculazioni. Gli americani tenevano ben taciuti quei segreti. Ma non aveva importanza. Quei giovani erano disposti a morire, e probabilmente era quello che avrebbero fatto. A prescindere dai codici, quando gli Stati Uniti avrebbero scoperto che le loro preziose armi nucleari erano state rubate, non avrebbero risposto con gentilezza. No. La bestia gigante si sarebbe scatenata, i tentacoli in volo, a distruggere qualsiasi cosa sul suo cammino.

      Jamal annuì e recitò una silenziosa preghiera di ringraziamento. Era stato un lavoraccio mettere insieme quel progetto. Avevano i mujaheddin necessari – comunque i giovani disposti a morire per la fede erano facili da acquisire.

      Gli altri elementi erano più difficili. Presto avrebbero avuto le piattaforme di lancio e i missili – Jamal se ne sarebbe occupato lui stesso. Erano stati promessi i codici, ed era sicuro che li avrebbe ricevuti come descritto. Poi tutto ciò di cui avrebbero avuto bisogno sarebbero state le testate stesse.

      E ben presto, se quello era il volere di Allah, avrebbero avuto anche quelle.

      CAPITOLO

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