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direzione da cui era venuta.

      “Unità Quattro,” disse rapida. “Ritirata. Ripeto, consiglio ritirata al fucile. Penso che abbiamo tra le mani un motociclista della notte.”

      “Fucile, ritirata,” ordinò Hillman.

      E infatti la moto continuò per la strada da cui era venuta, giù per la strada di servizio e attraverso il parcheggio con parchimetro. Keri perse la visuale della moto quando questa tornò sulla Mindanao.

      “Chi vede il messaggero?” chiese di fretta Hillman.

      “Unità Quattro,” proseguì Keri. “Il messaggero è scosso ma incolume. È lì in piedi, non sa come procedere.”

      “Francamente non lo so neanch’io,” ammise Hillman. “Teniamoci pronti, gente. Potrebbe essere stato un diversivo.”

      “Qualcuno viene a prendermi?” chiese Rainey, come rispondendo a Hillman. “Devo rimanere qui? Presumo di dover rimanere a meno che non mi si dica il contrario.”

      “Dio, come vorrei che se ne stesse zitto,” borbottò Ray mettendosi la mano sul microfono in modo che potessero sentirlo solo Keri e Butch. Keri non rispose.

      Dopo una decina di minuti Keri vide Rainey, sempre in piedi in mezzo al ponte, controllare il telefono.

      “Spero che possiate sentirmi,” disse. “Mi è appena arrivato un messaggio. Dice ‘Coinvolgendo le autorità hai tradito la mia fiducia. Hai sacrificato l’opportunità di redimere la bambina peccatrice. Adesso devo determinare se rimuovere il demone io stesso o perdonare la tua insubordinazione e darti un’altra possibilità di purificare la sua anima. Il suo destino era nelle tue mani. Adesso è nelle mie’. Sapeva che eravate qui. Tutto il vostro elaborato piano non è servito a niente. E adesso non so neanche se mi contatterà ancora. Potreste aver ucciso mia figlia!”

      L’ultima frase la urlò, con la voce spezzata dall’ira. Keri riusciva a udire la sua voce attraverso il porto, anche se parlava nel microfono. Lo vide affondare sulle ginocchia, lasciar andare la borsa, portarsi le mani al viso e mettersi a piangere. Il suo dolore era intimamente familiare.

      Era il pianto angosciato di un genitore che credeva di aver perso sua figlia per sempre. Keri lo riconosceva, perché aveva pianto allo stesso modo quando sua figlia era stata rapita e non era riuscita a fare niente per impedirlo.

      Keri si precipitò fuori dalla cabina della barca e arrivò al ponte appena in tempo per vomitare oltre il bordo, nell’oceano.

      CAPITOLO OTTO

      Jessica Rainey dimenava le dita per impedire che le si addormentassero di nuovo. Erano legate dietro alla schiena, attaccate alla tubatura contro la quale era seduta. Per terra c’era asfalto, duro e freddo. L’unica luce fluorescente che penzolava dal soffitto sfarfallava a intermittenza, rendendole impossibile prendere sonno.

      Non sapeva da quanto tempo si trovasse in quel posto, ma sapeva che era abbastanza perché il giorno fosse diventato notte. Lo capiva dalle minuscole fenditure sulla parete che lasciavano entrare la luce del sole. Adesso luce non ce n’era.

      Non aveva neanche notato le fenditure, all’inizio. Quando si era svegliata, tutto quello che aveva fatto era stato urlare e cercare di liberarsi. Aveva urlato in cerca di aiuto. Aveva urlato ai suoi genitori. Aveva persino urlato il nome del suo fratellino, Nate, non che potesse aiutarla.

      E aveva tirato così forte i ceppi che aveva ai polsi che quando si era guardata alle spalle dove le si erano ficcati nella pelle aveva visto le gocce di sangue che colavano a terra.

      Era stato più o meno allora che si era accorta di non indossare i suoi vestiti. Qualcuno glieli aveva tolti e li aveva rimpiazzati con un abito senza maniche che le arrivava alle ginocchia. Chiaramente era fatto in casa, cucito in modo non uniforme.

      Oltre a ciò, era ruvido e fastidioso, come se fosse fatto di molti sacchi di iuta. Se non fosse stata così indolenzita si sarebbe totalmente concentrata su quanto le desse prurito. Si rifiutava di pensare al fatto che le fosse stato cambiato il vestito.

      Dopo essersi distrutta a furia di gridare e divincolarsi e dopo che l’adrenalina le ebbe lasciato il sistema nervoso, aveva cercato di ricordare che cosa le fosse successo. L’ultima cosa che riusciva a riportare alla memoria era che stava pedalando su per la grossa collina sulla Rees Street, quando aveva sentito un improvviso e acuto dolore alla schiena. Era sembrata una scarica di elettricità come quella che a volte sentiva toccando la maniglia di una porta di metallo dopo aver camminato su un tappeto, ma cento volte peggio.

      E basta. La cosa successiva che sapeva era che si trovava in quella stanza che era illuminata solo per un paio di metri circa attorno a lei per poi collassare nell’oscurità. Non aveva idea delle sue dimensioni, ma era piuttosto sicura che le pareti fossero fatte dello stesso asfalto del pavimento. Quando gridava il suono usciva attutito, come se nessun rumore potesse fuggire dalla stanza.

      E le faceva male la schiena, non nel modo in cui le faceva male tutto il resto, che era più che altro un forte indolenzimento dovuto all’essere bloccata nella stessa posizione per tanto tempo. C’era un particolare punto della schiena che le sembrava bruciare.

      Anzi, era lo stesso punto in cui aveva sentito male prima. Più ci pensava, più Jessica sospettava che qualcuno l’avesse colpita in quel punto con qualcosa di simile a un pungolo per bestiame. Si ricordava di aver letto qualcosa nel corso di storia degli Stati occidentali.

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