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che lo guardava imprecando in una lingua che non capiva. L’uomo poi lo spinse facendolo volare di schiena addosso a una bancarella e poi a terra.

      “Non ce n’è bisogno,” disse Marco facendosi avanti e tendendo una mano per fermare l’uomo.

      Ma Alec, normalmente passivo, provò una nuova sensazione di rabbia. Era un sentimento che non conosceva, una furia che gli vorticava dentro fin dalla morte della sua famiglia, una rabbia che aveva bisogno di essere sfogata. Non riuscì a controllarsi. Balzò in piedi, si lanciò in avanti e con una forza che non sapeva di avere diede all’uomo un pugno in faccia facendolo cadere addosso a un’altra bancarella.

      Alec rimase poi fermo, stupito di aver atterrato un uomo così grande e grosso. Marco gli stava accanto, pure lui con gli occhi sgranati.

      Subito scoppiò il caos nella piazza del mercato: i rozzi amici dell’uomo accorsero e anche un gruppo di soldati pandesiani arrivò dall’altra parte della piazza. Marco sembrava colto dal panico e Alec capì che si trovavano in una posizione precaria.

      “Da questa parte!” disse con urgenza Marco afferrando Alec e tirandolo con forza.

      Mentre lo zotico si rimetteva in piedi e i Pandesiani si avvicinavano, Alec e Marco corsero tra le strade. Alec seguiva l’amico che lo guidava attraverso la città che conosceva benissimo, prendendo delle scorciatoie, serpeggiando tra le bancarelle e virando di colpo in stradine secondarie. Alec riusciva a stento a stargli dietro in tutto quel fitto zigzagare. Ma quando si voltò per guardarsi alle spalle vide un grosso gruppo che si avvicinava, quindi capì che avevano per le mani una battaglia che mai avrebbero potuto vincere.

      “Qui!” gridò Marco.

      Alec guardò Marco saltare oltre il bordo del canale e senza pensarci lo seguì aspettandosi di atterrare in acqua.

      Fu invece sorpreso di non sentire alcun tuffo e di trovarsi ad atterrare su una piccola cengia di pietra sul fondo, un ripiano che prima non aveva visto. Marco, respirando affannosamente, bussò quattro volte contro un’anonima porta di legno costruita nella pietra, accanto alla strada. Un attimo dopo la porta si aprì e Alec e Marco furono tirati nell’oscurità mentre la porta subito si richiudeva dietro di loro. Prima che si serrasse del tutto Alec vide un uomo che correva verso il bordo del canale, con sguardo interrogativo, incapace di vedere la porta di sotto che si chiudeva.

      Alec si trovò sottoterra, in un canale buio, e corse, frastornato, con l’acqua che gli bagnava le caviglie. Svoltarono e girarono e presto furono di nuovo alla luce del sole.

      Alec vide che si trovavano in una grande stanza di roccia al di sotto delle strade cittadine. La luce del sole filtrava dalle grate in alto e lui guardò con stupore vedendosi circondato da numerosi ragazzi della loro età, tutti con i volti coperti di terra, ma bonariamente sorridenti. Tutti si fermarono, respirando affannosamente, e Marco sorrise salutando i suoi amici.

      “Marco,” dissero abbracciandolo.

      “Jun, Saro, Bagi,” rispose Marco.

      Si fecero tutti avanti e lui li abbracciò uno per uno, sorridendo. Erano chiaramente dei fratelli per lui. Avevano tutti suppergiù la stessa età, alti come Marco, con le spalle larghe e i volti duri, l’aspetto di ragazzi che erano riusciti a sopravvivere per tutta la vita nelle strade. Erano ragazzi che chiaramente avevano sempre dovuto arrangiarsi.

      Marco tirò avanti Alec.

      “Questo,” annunciò, “è Alec. È uno di noi adesso.”

      Uno di noi. Ad Alec piacque il suono di quelle parole. Era una bella sensazione sentirsi parte di qualcosa.

      Tutti gli strinsero la mano e uno di loro, il più alto, Bagi, scosse la testa e sorrise.

      “Quindi sei stato tu a far partire tutta questa agitazione?” chiese con un sorriso.

      Alec sorrise docilmente.

      “Quel tipo mi ha spinto,” disse.

      Gli altri risero.

      “Una ragione valida come qualsiasi altra per rischiare le nostre vite,” rispose Saro, sincero.

      “Sei in una città adesso, ragazzo di campagna,” disse Jun con franchezza, senza sorridere, diversamente dagli altri. “Avresti potuto farci uccidere tutti. È stata una cosa stupida. Qui alla gente non gliene frega niente: ti spingono e fanno molto di peggio. Tieni la testa bassa e guarda dove vai. Se qualcuno ti viene addosso, girati e allontanati o potresti trovarti un pugnale conficcato nella schiena. Sei stato fortunato questa volta. Questa è Ur. Non si sa mai chi può attraversarti la strada e la gente qui ti pugnalerebbe per un qualsiasi motivo. Alcuni anche senza ragione.”

      I nuovi compagni improvvisamente si voltarono e si allontanarono addentrandosi più a fondo nei cunicoli cavernosi. Alec corse per raggiungerli mentre Marco si univa a loro. Sembravano conoscere tutti quel posto a memoria, anche nella penombra, girando e svoltando con facilità tra le stanze sotterranee, con l’acqua che gocciolava e riecheggiava tutt’attorno a loro. Evidentemente erano tutti cresciuti lì. Questo faceva sentire Alec fuori posto: lui era cresciuto a Soli e quel posto che era così mondano, quei ragazzi di strada così furbi e svegli. Avevano tutti sicuramente sofferto prove e difficoltà che Alec mai avrebbe potuto immaginare. Erano una combriccola un po’ rude, avevano ovviamente passato più di un alterco e soprattutto avevano l’aspetto di essere dei sopravvissuti.

      Dopo aver svoltato una serie di vicoli, i ragazzi salirono una ripida scala di metallo e presto Alec si trovò di nuovo in superficie, tra le strade, in una diversa parte di Ur, emergendo nel mezzo di un’altra frenetica folla. Alec si voltò e si guardò in giro vedendo una grande piazza cittadina con una fontana di rame al centro. Non la riconobbe: faceva fatica ad orientarsi fra tutti quei quartieri in quella città così estesa.

      I ragazzi si fermarono sotto a un edificio basso, tozzo e anonimo, fatto di pietra, simile agli altri con i suo tetto piatto ricoperto di tegole rosse. Bagi bussò due volte e un attimo dopo l’anonima porta arrugginita si aprì. Tutti entrarono rapidamente, poi la porta si richiuse di colpo dietro di loro.

      Alec si trovò in una stanza buia, illuminata solo dalla luce del sole che filtrava dalle finestre in alto. Si voltò e riconobbe il rumore dei martelli che colpivano le incudini, quindi scrutò la stanza con interesse. Udì il sibilo di una forgia, vide la familiare nuvola di vapore e immediatamente si sentì a casa. Non aveva bisogno di guardarsi ancora in giro per capire che si trovava in una forgia piena di fabbri che lavoravano alla fabbricazione di armi. Il cuore gli si gonfiò di eccitazione.

      Un uomo sulla quarantina, alto e magro con la barba corta e il volto pieno di fuliggine, si asciugò le mani sul suo grembiule e si avvicinò. Fece un cenno agli amici di Marco guardandoli con rispetto e loro risposero annuendo.

      “Fervil,” disse Marco.

      Fervil si voltò e vedendo Marco gli si illuminò il viso. Si avvicinò e lo abbracciò.

      “Pensavo fossi andato a Le Fiamme,” disse.

      Marco gli sorrise.

      “Non più,” rispose.

      “Voi ragazzi siete pronti a lavorare?” chiese. Quindi guardò Alec. “E qui chi abbiamo?”

      “Un mio amico,” rispose Marco. “Alec. Un bravo fabbro, e felice di unirsi alla nostra causa.”

      “Davvero?” chiese Fervil scetticamente.

      Guardò Alec con occhi duri, squadrandolo dalla testa ai piedi come se fosse inutile.

      “Ne dubito,” rispose, “dal suo aspetto. Mi sembra tremendamente giovane. Ma possiamo metterlo a lavorare raccogliendo i nostri scarti. Prendi questo,” disse porgendogli un secchio pieno di pezzetti di metallo. “Ti farò sapere se mi serve altro da te.”

      Alec arrossì indignato. Non sapeva perché non piacesse a quell’uomo, forse si sentiva minacciato. Sentì che nella forgia calava il silenzio, sentì tutti gli altri ragazzi che lo guardavano. In molti modi questo gli fece ricordare suo padre, e questo non poté che accrescere la sua rabbia.

      Si sentì ribollire dentro non volendo più tollerare, dopo la morte della sua famiglia, tutto ciò

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